Transformers: Il risveglio, la recensione

Anche Transformers: Il risveglio come già Bumblebee dimostra che il dopo Michael Bay è molto più difficile di quel che si potesse credere

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Transformers: Il risveglio, il primo film del nuovo corso della saga dopo Bumblebee, in sala dal 7 giugno

Non fa in tempo ad iniziare Transformers: Il risveglio che già nel prologo viene introdotta la chiave a transcurvatura, l’oggetto a metà tra il tecnologico e il magico dal nome vagamente futuristico e scientifico, che serve a mettere in moto gli eventi e agitare i personaggi. È un artefatto di Cybertron, il pianeta dei robot, che se finito nella mani sbagliate (esattamente le stesse che lo cercheranno lungo il film) può causare la distruzione della Terra da parte di Unicron. Siamo nella seconda linea temporale dei Transformers, quella partita con il film precedente, Bumblebee, sono gli anni ‘90 e quindi gli eventi dei 5 film diretti da Michael Bay devono ancora avvenire. Nel film precedente alcuni Autobot sono arrivati sulla Terra e nonostante gli umani ancora non sappiano della loro esistenza (come era nel primo film, del 2007) combattono battaglie immense. 

È impossibile seguire l’eredità di Michael Bay, lo si era visto già in Bumblebee e questo film lo conferma. Non solo in cinque film ha identificato profondamente la versione filmica di Transformers al suo stile, ma il suo stile è impossibile anche solo da ricalcare per chiunque non sia lui. I film della serie Transformers devono trovare una nuova identità ma sono lontanissimi dall’esserci riusciti. Sia Travis Knight con Bumblebee che Steven Caple Jr. con questo Il risveglio, girano film generici, rispettano tutte le buone regole del cinema americano, montano, fotografano e dirigono gli attori in maniera corretta e giusta ma consegnano in sala opere senza una personalità, senza stile, senza caratteristiche salienti. Come la chiave a transcurvatura: oggetti che giustificano altre scene.

Non fa di meglio la sceneggiatura che assegna ai robot protagonisti le personalità standard dei gruppi d’azione (il personaggio autoritario, quello simpatico e sbruffone, quello femminile di grandissima efficienza e bravura ma che non è chiaro perché non è considerato il più importante, quello affidabile e coscienzioso) senza farci nulla e ha così poca fiducia nel suo pubblico, nonché nelle proprie capacità, che per ben quattro volte interrompe il racconto per fare una sintesi della trama fino a quel punto e spiegare cosa accadrà da lì in poi. Di meglio chiaramente non può accadere sul fronte della visione di mondo. Michael Bay aveva il coraggio già nel secondo film di usare questo cinema di escapismo estremo per dare una visione non standard dell’America post crisi economica (era il 2009), in cui Shia LaBeouf, dopo aver salvato il pianeta nel film precedente, in quello non riusciva a trovare un lavoro. Qui siamo molto lontani da una simile personalità. Molto.

A tutti gli effetti sembra di essere davanti a un film concepito in uno studio di produzione da un team di produttori o forse da Lorenzo di Bonaventura in persona, l’uomo che ha sempre curato tutti i film della saga e che continua ad esserne la mente. Transformers: Il risveglio è un lista di elementi che devono essere presenti nel film, non un film in sé. Anche la caratterizzazione dei nuovi personaggi umani lascia tantissimo a desiderare, con Anthony Ramos che porta un forte radicamento a Brooklyn, quindi un’identità popolare in linea con la storia degli umani della saga, che però poi stona se così ostentata. Soprattutto quando in mezzo a questioni intergalattiche di proporzioni immense (quasi ad imitare le esagerazioni Marvel) parla di Brooklyn (!).

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