Trainspotting 2, la recensione
Ripiegato e intristito, Trainspotting 2 va dichiaratamente a ritoccare la mitologia del primo, rivedendo quella furia all'insegna di una quieta vecchiaia
Questi anni di remake e prequel, di grandi ritorni e continuazioni ci hanno insegnato che i prequel godono di un’aderenza all’originale e di una libertà maggiori, mentre i sequel, specie quelli con gli stessi attori invecchiati, sembrano non riuscire a non ritoccare la mitologia che devono continuare, non possono cioè ignorare il peso che si portano appresso.
Lo stile di Danny Boyle al suo meglio si agita moltissimo per nascondere un film che di fatto non c’è e trovare una chiave di lettura che regga tutto. La storia molto sconclusionata del ritorno di Mark Renton a casa, di cosa sia successo agli altri e di come possano ora vivere di nuovo insieme, non fila dritta, manca di sostanza e sembra più che altro una serie di sketch attaccati. Inoltre, confinando tutta la comicità in un personaggio, Spud (che qui diventa proprio una macchietta), e tutta la cattiveria in un altro, Begbie, sconfessa la complessità che aveva creato nel 1996, fino ad aggirarsi pericolosamente dalle parti del film sulla terza età all’insegna di semplicità, consolazione e buoni sentimenti. Il parente più vicino di Trainspotting 2, dei suoi rimpianti, della sua riconquista di una giovinezza interiore e delle sue “nuove avventure”, sono allora Last Vegas o Marigold Hotel (non manca anche la new entry giovanissima), sebbene i protagonisti abbiano solo 46 anni!
Il primo Trainspotting aveva un fare giovanile, tagliava tutto con l’accetta, e proprio la scelta di cosa tagliare e come lo rendeva coraggiosoA partire dall’attacco con Renton che corre, di nuovo, ma su un tapis roulant in palestra, Trainspotting 2 cita tantissimo, strizza l’occhio e affianca alle sue immagini quelle di Trainspotting, creando un piacevole effetto L’Amore in Fuga o Before Midnight. Gli stessi attori ora e poi giovani nelle immagini del film, l’universo del cinema che ricalca quello della vita reale, i ricordi nostri e dei personaggi che coincidono e sono rievocati dalle medesime immagini come se condividessimo una memoria visiva. Ma è talmente una costante nel film da svelare presto l’intento di andare a ritoccare, rivedere e quasi (paradossalmente) aggiustare la mitologia del primo. E la tragedia è che questa revisione è verso una quieta vecchiaia, capace di piegare ciò che era netto e cinico in tenero e ingenuo.
Il primo Trainspotting aveva un fare giovanile, tagliava tutto con l’accetta, e proprio la scelta di cosa tagliare e come lo rendeva coraggioso. Raccontando la tragedia dell’essere coscienti in un mondo in cui forse si sta meglio incoscienti, l’odio per il prossimo e la società, il maltrattamento delle convenzioni sociali sugli uomini, una vita intera che una volta svuotata di droga non si riesce a riempire d’altro, univa ironia nera a rabbia autentica. La maniera in cui il suo seguito vuole spiegare ogni cosa (da dove viene “Scegli la vita”? Che significato ha il termine Trainspotting? Addirittura l’ammissione di colpevolezza dell’essere stati loro ad uccidere Tommy, vero non detto del primo film) riesce a impoverire anche quel tesoro. Aggiungendo informazioni, tappa quei buchi che il pubblico aveva riempito di senso.
Là dove c’erano inquadrature sporche e un’estetica stradale, immersa nel lercio, qui ci sono paesaggi bellissimi, grandi colori e inquadrature raffinate. Là dove c’erano nubi e un grigio costante qui ci sono giornate assolate, parchi e bambini sugli scivoli. Là dove c’era una misantropia palese e un odio terribile per l’altro, qui c’è un continuo perdonare qualsiasi cosa all’insegna dello stare insieme, del lamentarsi di tutto. Viene facile dopo poco chiedersi davvero che cosa si stia guardando. Perchè Trainspotting 2 non solo non racconta il suo tempo, come il primo faceva con gli anni ‘90, ma nel voler essere tutto centrato proprio sul problema del tempo (quello passato e rievocato ma anche quello davanti a sé) dà un’idea dell’età matura di sconfortante ruffianeria e deludente banalità, come un anziano non più in connessione con niente, incapace di capire cosa gli accada intorno e di abitare i propri anni.