Tracers, la recensione

Animato dalle migliori intenzioni ma indeciso su dove piazzarsi, Tracers è il secondo film a tentare invano di lanciare Taylor Lautner come eroe d'azione

Critico e giornalista cinematografico


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Taylor Lautner sta studiando da action hero anche se con riluttanza abbandona quegli abiti di eroe romantico che gli hanno sempre calzato male. Ancorato con pesantezza alla serie di Twilight (non proprio un must per il pubblico del cinema d'azione) dove era la controparte più virile dell'etereo Pattinson, già con Abduction aveva cercato di trovare una propria strada, essere uno Statham per ragazzi (come se Statham non lo fosse), un Jackie Chan per occidentali (come se Jackie Chan non ce lo godessimo anche qui). Vorrebbe unire le due caratteristiche chiave di questi attori, che sono poi tra le più apprezzabili in assoluto per un attore d'azione: gli stunt fatti dal vero e la performance atletica. Ovviamente non intende essere nè un genio dell'arte marziale, nè un vero duro, e questa forse è la sua pecca più grande, sembra non scegliere nessuna strada e finire in una pericolosa via di mezzo in cui regna l'evidente disonestà, l'artificiosità dell'operazione.

Tracers è un film sulla scia di Brick Mansions che poi è il remake americano di Banlieue 13, cioè una storia di parkour, ingiustizie e (ecco che torna l'eroe romantico) amore. Il personaggio di Lautner è nei guai con gli strozzini e consegna pacchi in bici per Manhattan, quando entra in contatto con un gruppo che fa parkour e ne rimane affascinato. O meglio rimane innamorato di una di loro e li segue in un vortice di crimine come in un Point Break senza FBI e senza senso della coolness.

Non si può far finta di non vedere la dedizione con cui la produzione segue le regole auree più serie e ferree del vero cinema d'azione: riprese a corpo intero e veri stunt. Tracers ha l'indubbio merito di mostrare qualcosa sul serio, di obbligare i suoi attori a performance, purtroppo ha anche il difetto di non poter o non saper spingere davvero sull'acceleratore. Le suddette performance di parkour infatti sono molto all'acqua di rose e in pochissimi casi stupiscono. Viene in questa maniera a mancare uno degli elementi fondamentali del genere che Lautner vuole battere: lo stupore di fronte ad una prestazione. La poesia di un corpo preso in movimenti stupefacenti.

Se Jackie Chan ha fatto di questa meraviglia un'arte e Statham vanta una presenza in scena che pochi possono uguagliare, Lautner manca di tutto anche se il suo impegno è lodevole. Dunque, privo di un vero centro di gravità, il film lascia emergere ad ogni svolta i suoi difetti, da una trama grossolana (le motivazioni dei vari gruppi sono risibili) a uno svolgimento poco curato (il protagonista imparerebbe il parkour in pochi giorni), che unito ad un'azione per nulla stupefacente fa chiedere in più d'un momento che cosa lo si stia guardando a fare.

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