Torino 33 - The dressmaker, la recensione
Aperto come un western ma condotto come una commedia The Dressmaker pare aver capito tutto di come si mescolano i generi. Gli manca solo il finale adatto
Non è venuta per fare la pace ma per rimettere in pari il conto. Nel suo personale far west però non ci si sfida e non si combatte con pistole e fucili ma con ago e filo.
Nel western la necessaria presa di posizione, la conversione etica di una comunità o anche solo il suo piccino ostinarsi su pregiudizi e vigliaccherie, è lo stimolo all’eroismo. Ed eroina è Tilly che con le sue forze intendere rimettere tutto a posto e capire cosa sia successo davvero quando fu accusata di omicidio, perché lei pare non essere più in grado di ricordarlo.
Dunque il momento in cui il film si perde e comincia una discesa ingiusta è a tre quarti, dopo quello che appare come un primo finale. La storia di Tilly non si accontenta di una possibile chiusa lieta e a sorpresa continua, senza però quella capacità di essere leggero e intelligente al tempo stesso. Al contrario nel suo lungo (e vero) finale cerca una complessità che non sa gestire e sfocia a quel punto davvero nel cinema di più facile intrattenimento, quello che cavalca le opinioni di tutti, i desideri vendicativi del pubblico e dà soddisfazione nella maniera più scontata. Lì diventa pop nel senso più addormentato e smette di essere pop nel senso più sveglio.