Torino 33 - The dressmaker, la recensione

Aperto come un western ma condotto come una commedia The Dressmaker pare aver capito tutto di come si mescolano i generi. Gli manca solo il finale adatto

Critico e giornalista cinematografico


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L’Australia come il West, un paesino derelitto e minuscolo nel pieno del deserto della vita e del conformismo degli anni ‘50 è teatro di un’epica vendetta. A tornare in città dopo un lungo esilio è una donna, accusata di omicidio quando era bambina e per questo cacciata. Per decenni ha vissuto a Parigi, è diventata stilista e ora torna a casa, da quella madre che tutti considerano matta (e che forse lo è proprio diventata), ingabbiata in una abita che domina il paesino di poche centinaia di anime.

Non è venuta per fare la pace ma per rimettere in pari il conto. Nel suo personale far west però non ci si sfida e non si combatte con pistole e fucili ma con ago e filo.

Fin dall’inizio, da quando la Tilly di Kate Winslet si presenta in scena con un grand’abito che fa apertamente a cazzotti con la natura selvaggia e i paesani bastardi che la circondano, è chiaro che questo è un film in cui un singolo si erge a nuova autorità morale, in cui si combatte per un principio e una visione di mondo.

Nel western la necessaria presa di posizione, la conversione etica di una comunità o anche solo il suo piccino ostinarsi su pregiudizi e vigliaccherie, è lo stimolo all’eroismo. Ed eroina è Tilly che con le sue forze intendere rimettere tutto a posto e capire cosa sia successo davvero quando fu accusata di omicidio, perché lei pare non essere più in grado di ricordarlo.

E The dressmaker ha davvero il piglio migliore per quasi tutta la sua durata. Necessariamente pieno di humour ma anche duro. Jocelyn Moorhouse sa fare della commedia intelligente con un bersaglio molto molto facile e molto grande, cioè l’ottusità di una comunità bigotta, contemporaneamente sedotta dalla modernità dei vestiti di Tilly e delle provocazioni sessuali che questi promettono ma comunque intenzionata a punire chi si crede migliore di loro con le accuse più scontate. Tiene fermo l’obiettivo del western ma ci arriva con la commedia sentimentale.

Dunque il momento in cui il film si perde e comincia una discesa ingiusta è a tre quarti, dopo quello che appare come un primo finale. La storia di Tilly non si accontenta di una possibile chiusa lieta e a sorpresa continua, senza però quella capacità di essere leggero e intelligente al tempo stesso. Al contrario nel suo lungo (e vero) finale cerca una complessità che non sa gestire e sfocia a quel punto davvero nel cinema di più facile intrattenimento, quello che cavalca le opinioni di tutti, i desideri vendicativi del pubblico e dà soddisfazione nella maniera più scontata. Lì diventa pop nel senso più addormentato e smette di essere pop nel senso più sveglio.

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