Tori e Lokita, la recensione | Cannes 75
Con la consueta precisione nel dipingere un contesto precisissimo, i Dardenne non sembrano avere più la forza di tenere le redini di un racconto
I film dei Dardenne si giudicano da come finiscono. La chiusa è sempre il nodo della storia, la loro tecnica di scrittura mette nel tendersi dei nodi il senso di quel che abbiamo visto, dopo che il resto del film, in un accumulo di confidenza con dei personaggi, li ha portati a giocarsi quel poco che hanno ancora da perdere (la vita, l’affetto gli uni per gli altri, l’ultima chance di un amore, una redenzione che non arriverà) in un paio di decine di minuti di fuoco. Non farà eccezione Tori e Lokita che tuttavia, svela anche la più programmatica e didascalica delle morali nella filmografia dei fratelli.
Di nuovo dopo L’età giovane i Dardenne guardano agli ultimi che vengono da fuori, ai problemi che vengono posti a chi non ha nessuno cui appigliarsi in un mondo di diversa cultura. E questo sembra un po’ levargli forza, come se davanti a storie di personaggi e problemi che vengono da fuori si sentissero in dovere di essere ancora più diretti. I personaggi diranno “Qui non ci vogliono” (come se non l’avessimo capito) e addirittura arriveranno a dire apertamente che se avessero avuto i documenti tutta questa infelicità non ci sarebbe. Esattamente ciò che prima era nell’aria e che noi derivavamo dagli eventi adesso è gridato nelle orecchie del pubblico.