Top Gun: Maverick, la recensione
Altra faccia della medaglia del primo film, Top Gun: Maverick ribalta l'esaltazione in tepore ma regala una seconda parte fenomenale
Come è possibile essere ancora Maverick oggi? In un momento in cui il maschio edonista, sbruffone e conquistatore, quello che sgasa con la moto per non sentire ciò che dice una donna che tanto, lo sa bene, è pazza di lui, non è più così ben visto, anzi è il simbolo di ciò che dovrebbe cambiare, anche Maverick deve desiderare un po’ di stabilità e finire più volte con il sedere per terra. Deve sembrare un po’ ridicolo, quantomeno ironico. È lui quello che non viene ascoltato. Non ha fatto carriera mentre tutti intorno a lui sì, continua ad essere uno che agisce al di fuori delle regole, cosa che ieri esaltava e oggi invece fa sorridere. Insomma quella vita che pareva sorridere a quelli come lui, oggi non è che gli vada benissimo. Ma come per Rocky nelle sue diverse iterazioni anche lui, un po’ un relitto di un’altra era che non vuole smettere, ha un’ultima cartuccia da sparare, l’ultimo momento in cui l’aeronautica militare ha bisogno di lui.
È difficile sentire quel che dice Maverick e non pensare che sia ciò che potrebbe dire anche Tom Cruise. Quando gli dicono che è ora di smetterla e deve rassegnarsi che è finita, lui risponde: “Non posso, non so proprio come si faccia. Questa non è una cosa che faccio, è quello che sono!”. Di nuovo: sembrano dialoghi di Stallone, invece è Tom Cruise, una persona di 60 anni con capelli tinti di un nero profondo che fa ancora quel che faceva 40 anni fa cercando di sembrare il più giovane possibile.
E tutto è anche raccontato meglio durante l’azione. Nelle due-tre sequenze più dure prima dell’addestramento e poi nella missione c’è una cura nella messa in scena dell’azione che crea sequenze mai viste e sentite prima. Il sound design che mescola rumori ben distinti (quello della cloche che si sposta di colpo pare il metronomo degli eventi) con uno score che assomiglia ai rumori e con infine il fiatone e l’affanno del personaggio, tutto per rendere la fatica e lo sforzo. Se Maverick ha un’identità è quella di chi fa cose impossibili, stavolta ne sentiamo il peso e la pressione (anche effettiva, come ci spiegano) per percepire il rischio di non farcela e la dipendenza da quel mondo lì.
Questo complesso di idee e tecnica crea una seconda parte che è forse, quest’anno, l’esperienza cinematografica definitiva da vivere in sala. Una vera bomba che dura più di 40 minuti e che tra inquadrature mai viste prima (se non nei trailer), tensione ben portata e una narrazione interna all’azione tutta sua, che non ricalca i precedenti, è non una ma 10 volte migliore del primo film.
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