Tolo Tolo di Checco Zalone, la recensione

Diretto molto meglio, scritto con più struttura e più ambizioni, Tolo Tolo ripete lo schema Checco Zalone perfezionandolo e arricchendolo

Critico e giornalista cinematografico


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Tolo Tolo, la recensione del film di e con Checco Zalone

La dinamica del cinema italiano dei comici non cambia, quella no, ma tutto intorno qualcosa invece è cambiato. Tolo Tolo è in un certo senso (e con molta molta moderazione) una svolta per Checco Zalone, che sulla consueta struttura di provato funzionamento prova ad innestare un film con un ritmo e una regia un filo più sofisticati. Già dall’introduzione e dall’inizio a sorpresa, c’è una regia diversa. Non stiamo parlando di chissà quali sofisticazioni, ma di un’attenzione sicuramente maggiore di prima a come la messa in scena (e in particolar modo il montaggio) possono aiutare le gag, fluidificare il racconto e sorprendere un po’. Sarebbe l’ABC della cura per lo spettatore, ma prima non c’era e ora invece sì.

Tolo Tolo ha proprio altre ambizioni e valori produttivi che per la prima volta si vedono. In buona sostanza è ben confezionato e scritto con cura. E proprio nella scrittura forse sta uno degli indizi più importanti su cosa sia accaduto: c’è infatti nei titoli di testa il nome di Paolo Virzì accanto a quello di Checco Zalone tra gli sceneggiatori. La commedia italiana d’autore che incontra quella di grandissimo incasso. E il film rispetterà questa promessa di mescolanza perché il consueto viaggio di Zalone, cioè quello sradicamento che nei suoi film lo porta in un altro luogo diverso dalla sua provincia in cui applicherà senza successo le dinamiche che invece lì glielo assicuravano, stavolta è il viaggio dei migranti dall’Africa all’Italia. Ma sarebbe riduttivo vedere l’apporto di Paolo Virzì solo in questa tematica, il contributo sembra di scorgerlo in una generale solidità dell’impianto, nella grazia con la quale viene trattato il contesto e in un’abilità che i film di Zalone prima non conoscevano nel “fare cinema”, ovvero il complesso di idee, trovate e soluzioni visive che arricchiscono storia e gag di senso.

Certo la concentrazione dell’umorismo non è la stessa degli altri film, è un po’ meno rutilante e scoppiettante, tuttavia rimane il suo tipico punto di vista bipartisan, quello in virtù del quale ogni parte del discorso è oggetto di ironia (sia ciò che è universalmente condannato, sia le ipocrisie delle persone che lo condannano) e dentro al quale ognuno può credere che ad essere presi in giro sia chi la pensa in un'altra maniera. Ed è quello, alla fine, il vero specifico di Zalone, la capacità di riconoscere che nonostante ci siano delle idee e dei principi di umanità universale (in questo caso la tragedia dei migranti) le persone coinvolte sono come le altre, non dei santi, spesso furbetti, alle volte emeriti imbecilli, da entrambe le parti. Non santifica quindi i migranti, li trova stupidi e profittatori tanto quanto i militari, la politica (ovviamente), i giornalisti-star che fanno dei propri reportage un’arma di vanità, e per quanto non prenda mai in giro la loro condizione, li prende sempre in giro come esseri umani. Questo è quello che non accadeva in Ferie d’Agosto di Paolo Virzì (ma era il 1996, altri tempi) in cui un migrante veniva santificato di fronte ai mostri italiani e invece qui dona vera dignità di personaggi anche a loro.

Per il resto Checco Zalone è Checco Zalone, ovviamente: un personaggio pienamente e fieramente italiano già a partire dall’abbigliamento “grandi marche” fino al disprezzo per le regole e il desiderio di un paradiso sempre altrove, incapace di guardare oltre la propria convenienza. La tipologia umana rappresentata è quella che ama ripetere “prima gli italiani”, ma non per ideologia, solo perché conviene. Ogni tanto poi gli sale anche il fascismo, ha cioè un rigurgito esplicito di ducismo, nonostante si trovi in mezzo ai migranti a condividerne le sorti. Non ha il cuore di Siani, la sfacciata ipocrisia di Christian De Sica, la bontà fasulla di Massimo Boldi, la tenerezza imbarazzata di Pieraccioni o il machismo di Celentano, ma una specie di endemico senso di superiorità e alterità che gli impedisce di trovare comunanza con chiunque. E come sempre gli capita, Luca Medici sa trovare in questa tipologia umana un filone quasi inesauribile di ironie e stupidità a cui nessun altro comico attinge e quindi (anche se abbastanza ripetitivo) suona comunque fresco.

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