Tolo Tolo di Checco Zalone, la recensione
Diretto molto meglio, scritto con più struttura e più ambizioni, Tolo Tolo ripete lo schema Checco Zalone perfezionandolo e arricchendolo
Tolo Tolo, la recensione del film di e con Checco Zalone
La dinamica del cinema italiano dei comici non cambia, quella no, ma tutto intorno qualcosa invece è cambiato. Tolo Tolo è in un certo senso (e con molta molta moderazione) una svolta per Checco Zalone, che sulla consueta struttura di provato funzionamento prova ad innestare un film con un ritmo e una regia un filo più sofisticati. Già dall’introduzione e dall’inizio a sorpresa, c’è una regia diversa. Non stiamo parlando di chissà quali sofisticazioni, ma di un’attenzione sicuramente maggiore di prima a come la messa in scena (e in particolar modo il montaggio) possono aiutare le gag, fluidificare il racconto e sorprendere un po’. Sarebbe l’ABC della cura per lo spettatore, ma prima non c’era e ora invece sì.
Certo la concentrazione dell’umorismo non è la stessa degli altri film, è un po’ meno rutilante e scoppiettante, tuttavia rimane il suo tipico punto di vista bipartisan, quello in virtù del quale ogni parte del discorso è oggetto di ironia (sia ciò che è universalmente condannato, sia le ipocrisie delle persone che lo condannano) e dentro al quale ognuno può credere che ad essere presi in giro sia chi la pensa in un'altra maniera. Ed è quello, alla fine, il vero specifico di Zalone, la capacità di riconoscere che nonostante ci siano delle idee e dei principi di umanità universale (in questo caso la tragedia dei migranti) le persone coinvolte sono come le altre, non dei santi, spesso furbetti, alle volte emeriti imbecilli, da entrambe le parti. Non santifica quindi i migranti, li trova stupidi e profittatori tanto quanto i militari, la politica (ovviamente), i giornalisti-star che fanno dei propri reportage un’arma di vanità, e per quanto non prenda mai in giro la loro condizione, li prende sempre in giro come esseri umani. Questo è quello che non accadeva in Ferie d’Agosto di Paolo Virzì (ma era il 1996, altri tempi) in cui un migrante veniva santificato di fronte ai mostri italiani e invece qui dona vera dignità di personaggi anche a loro.