Tokyo Kaido 1, la recensione

Abbiamo recensito per voi il primo numero di Tokyo Kaido, manga di Minetaro Mochizuki

Nella vita spaccio libri e fumetti e mangio piadina e refusi.


Condividi

Pubblicata originariamente da Kodansha tra il 2008 e il 2009, Tokyo Kaido è una miniserie di tre volumi realizzata da Minetaro Mochizuki e proposta in Italia da Dynit, ed è la storia, sfacciata e a tratti assurda, di quattro giovani pazienti della clinica Christiania, la quale si occupa di fornire assistenza ai malati psichiatrici.

Hashi ha diciannove anni e, in seguito a un incidente, convive con un frammento di automobile conficcato nel cervello, a causa del quale ha un disturbo che lo porta a dire ad alta voce tutto quello che pensa. Hana, invece, ha ventuno anni e soffre di frequenti orgasmi involontari; Mari di anni ne ha sei e crede di vivere da sola al mondo, perché il suo cervello le impedisce di vedere gli altri esseri umani; e infine c’è Hideo, che ha dieci anni ed è convinto di essere in contatto con gli alieni e di avere dei super poteri.

In questo primo volume, Mochizuki mostra la quotidianità dei protagonisti, in cui le loro diversità entrano in conflitto, anche fisicamente, con il resto della società, sia a causa della giovane età sia dell’incapacità di formulare ed esprimere in modo razionale le proprie emozioni.

Il lettore si trova di fronte a situazioni grottesche dalle quali emerge l’impossibilità per queste persone di instaurare relazioni e trovare il proprio posto in un mondo che li esclude – Hashi a causa delle sue affermazioni incontrollate, Hana per le difficoltà nel fare anche le cose più banali e Hideo vessato dai compagni di scuola per le sue stranezze – e dal quale sono avulsi per loro stessa natura, come nell’estremo caso di Hana, letteralmente privata del contatto umano.

L’unico momento in cui le sensazioni dei personaggi vengono rese esplicite è quello dedicato al fumetto disegnato da Hashi. Rappresentandosi con le fattezze di un mostro, il personaggio racconta tramite una storia fittizia quella che è la sua condizione di escluso, di diverso, di reietto e fa sorgere nel lettore la domanda: sono questi ragazzi i veri mostri?

Un accento va sicuramente posto anche al colorito gruppo di personaggi secondari, che rendono ancora più sottile il confine tra i malati e il resto delle persone, tra i quali spiccano un paziente e una guardia che provengono direttamente da Napoleon Dynamite, il film diretto da Jared Hess.

Con il suo stile di disegno inconfondibile, minimal e preciso, e tramite le inquadrature dei gesti, come le mani che tremano o le spalle che si incurvano, l'autore permette ai personaggi di esprimersi nonostante l’evasività dei loro sguardi.

Citando la quarta di copertina, Tokyo Kaido è la ricerca di un “equilibrio in una vita folle”, un racconto dell'indagine di se stessi in un mondo ostile fatto di esclusione e di abbandoni nel quale non sembra esserci spazio per la diversità.

Minetaro Mochizuki ha vinto il ventunesimo Premio Kodansha nel 1997 e l’Osamu Tezuka Culture Prize nel 2000 grazie alla sua opera seinen post-apocalittica Dragon Head (Planet Manga) e il premio come Miglior serie straniera al Festival d’Angoulême del 2017, grazie al manga Chiisakobe, proposto quest’anno nel nostro Paese da J-POP.

Continua a leggere su BadTaste