Togo: una grande amicizia, la recensione

La vera storia del cane da slitta eroico protagonista della corsa al siero del 1925 in Togo diventa un'educazione agli spazi del west e all'eroismo dell'outsider

Critico e giornalista cinematografico


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TOGO - UNA GRANDE AMICIZIA: LA RECENSIONE

In un film centrato su un cane l’unica cosa che non bisogna davvero sbagliare è il cane. Al resto c’è rimedio. E Togo: una grande amicizia lo centra perfettamente, il suo cane è anche migliore dell’originale, cioè il vero cane da cui è tratta la storia, almeno a giudicare dalle classiche foto dei veri personaggi che chiudono il film. Solo secondariamente vengono gli umani e in questo caso era interessante capire se Willem Dafoe, che a questo punto può davvero dire di aver interpretato qualsiasi cosa in carriera da Gesù a Goblin fino alla spalla di un cane in un film di cani, sarebbe stato all’altezza, cioè se avrebbe avuto il carisma giusto e le spalle larghe a sufficienza per fare animare quest’avventura molto maschile tra un uomo e la sua muta di cani. A sorpresa, come nella realtà, i cani tirano la slitta e Dafoe si limita a seguire.

Al contrario di quel che riesce a fare Harrison Ford in Il richiamo della foresta (per citare un esempio recente) qui Dafoe non riesce mai a fare il comprimario, cioè a lavorare sulle scene che lo riguardano con la capacità di incidere tanto in brevi pose mettendosi al servizio dell’epica del cane Togo, quello che (stando al film) ha coperto la distanza maggiore della staffetta del siero, l’epica corsa con slitte trainate dai cani che nel 1925 assicurò che l’antitossina contro la difterite arrivasse a Nome impedendo la diffusione dell’epidemia. Fu in realtà il cane Balto a prendersi il merito perché la sua slitta coprì l’ultimo tratto della staffetta (protagonista negli anni ‘90 di un cartone animato della Amblimation distribuito dalla Universal) ma questo film Disney vuole celebrare il vero eroe. Ironia poi vuole che questo film arrivi su Disney+ a raccontare la storia di come fu fermata un’epidemia di 100 anni fa proprio nei giorni in cui un’epidemia blocca le persone a casa.

Rivalità storico-distributive a parte, nonostante Dafoe non riesca a dare il suo contributo, Togo interpreta benissimo il proprio genere di riferimento e centra tutti i momenti che vanno centrati. Diretto dal direttore della fotografia (che fa anche da direttore della fotografia) Ericson Core con un gusto giustamente spostato sui grandi scenari e una buonissima capacità di centrare i controluce, le tempeste, le color correction e tutto l’impianto cromatico per favorire il mood di ogni scena, Togo non vuole inventarsi niente ma ha il merito indubbio di fare bene il suo dovere. Cane riottoso e poco “da slitta”, Togo dovrebbe essere venduto e ma è troppo indisciplinato dunque i proprietari lo tengono controvoglia. Vivace e affettuoso si guadagnerà la testa della slitta con un cuore e una determinazione incrollabili che faranno la differenza durante una corsa impossibile.

L’outsider della vita che si rivela più importante e migliore di tutti gli altri inquadrati e obbedienti, il talentuoso cane tutto istinto e dedizione che rende possibile l’impossibile. La definizione americana classica di eroe qua in una storia 100% stelle e strisce. Se non c’è bisogno di cinema classico qui…

L’obiettivo di Togo è infatti quello di fare cinema virile per ragazzi, un campo in cui la Disney ha sempre messo il piede a partire dagli anni ‘60, e lo fa benissimo con una chiarissima consapevolezza sia storica (il rapporto personaggio-grandi spazi tipico del western che il cinema americano si porta appresso dagli anni ‘30) sia moderna di cosa significhi essere l’ultimo anello di una grande tradizione e saperla rimixare per un pubblico moderno.

Lo fa così tanto che l’odiosissima locuzione “film per tutta la famiglia” qui sembra a un certo punto addirittura avere quasi un senso.

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