Tiramisù, la recensione

L'esordio da regista di Fabio De Luigi delude. Tiramisù ha l'ironia giusta ma non riesce ad essere commedia, non crea mai una vera storia intorno alle gag

Critico e giornalista cinematografico


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Non è nell’umorismo che difetta Fabio De Luigi, non è cioè nella scelta di quali tratti della realtà deformare per scatenare la risata, per sottolinearne il ridicolo o per prenderla in giro, anzi quello forse è l’aspetto migliore di tutto il suo primo film da sceneggiatore e regista, Tiramisù. Quello che invece lo rende un abbozzo pieno di problemi e difficile da seguire, incapace di coinvolgere realmente e alla fine deludente, è proprio il fatto che a dirigerlo non ci sia un regista. Il passaggio dell’attore dietro la videocamera si sperava fosse motivato da qualche idea o spalleggiato da una conoscenza della narrazione di commedia. A giudicare dai risultati però non è così.

Forse addirittura è proprio la bontà di certe idee umoristiche, dell’universo grottesco, ad enfatizzare ancora di più cosa non vada in Tiramisù. De Luigi, che in televisione aveva incarnato diversi tipi di comicità, al cinema è sempre vittima, sul suo corpo è stato cucito molto bene questo personaggio, così tanto che anche in questo primo film in cui è lui a prendere tutte le decisioni, conferma quel ruolo per sè. Questo però subito si scontra con l’idea principale di fare del suo personaggio una specie di Alberto Sordi, cioè un mostro della società che vive, un pavido e perdente che le contingenze rendono vincente e profittatore, un bastardo e infido che sfruttando in maniera esagerata le storture del sistema di fatto le espone. Difficile tuttavia che un simile personaggio possa funzionare solo nel ruolo della vittima e mai in quello del carnefice. Impossibile pensare poi di fare un film in cui un simile uomo sia anche redento. Dall’amore poi!

Pur sorvolando questo problema che dà al film un andamento da sketch e non la fluidità della storia, con il passare dei minuti diventa purtroppo sempre più evidente come a Tiramisù manchi una direzione certa. L’insulsa storia d’amore si risolve in un’ultima inquadratura terribile e insignificante, la trama della carriera anche si chiude repentinamente senza né il piacere della soddisfazione, né l’amarezza dello schiaffo. Spegnendosi lentamente e senza saper ricompensare in alcuna maniera il pubblico per aver seguito la trama (tutta la storia del locale dell’amico appare slegata dal resto del film e non è nemmeno capace di vivere da sola), Tiramisù lascia solo l’amaro in bocca.

E se lo lascia è per alcune caratterizzazioni indubbiamente forti, per il grottesco di certi ambienti di lavoro, per l’approccio deciso e molto asciutto (di questo gli va dato atto) all’ambiente che prende di petto, cioè quello medico e, in un certo senso, anche per aver ecceduto pochissimo in retorica su un argomento in cui facilmente ci si poteva sbrodolare. Peccato che tutto ciò, tutte queste idee indubbiamente stimabili e lodevoli, si perdano nel momento in cui il film è raccontato e assemblato da qualcuno che sembra non padroneggiare le tecniche narrative utili a dare risalto alla trama.

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