Time to Hunt, la recensione | Berlinale 2020
Inesorabile e sempre più esagerato, metaforico e infernale, Time To Hunt è un thriller di caccia impeccabile, diretto con mano sicurissima ed interpretato con rara energia
TIME TO HUNT: LA RECENSIONE
Con un attacco così…
I luoghi comuni giusti ci sono tutti. C’è il sogno di una vita migliore che coincide con un posto migliore (in questo caso poi anche con un’economia migliore), c’è la squadra un po’ scalcinata ma anche con un suo grado di professionalità e una buonissima capacità di improvvisare quel che non sa ancora fare e infine c’è un grande design dietro il camerawork. Ogni scena è infatti giocata benissimo con gli spazi in cui si muovono i personaggi, il pubblico ne ha sempre chiara cognizione in modo che proprio la via d’uscita e la dimensione dei luoghi che attraversano abbia un senso e lavori per la comprensibilità di un film fatto tutto di movimento.
È una Corea derelitta, illuminata con soluzioni rubate a Blade Runner 2049, quella in cui questi tre decidono di passare alla rapina, lo fanno per salvare se stessi e alcuni per salvare la famiglia (in una specie di mondo al contrario, il padre di uno di loro va alle manifestazioni e il figlio lo riprendere dicendogli che non serve a niente). Tutta la prima parte alterna scenario a pianificazione ma quando parte la caccia il film diventa concentratissimo. Ci saranno almeno 5-6 sparatorie e tutte complicate e diverse, originali e piene di narrazione al loro interno. I tre ragazzi (uno di loro è il figlio più grande di Parasite) recitano benissimo e sembrano avere sulle spalle anni di noir moderno nella maniera in cui incrociano disperazione classica e atteggiamento paramilitare moderno.
Yoon Sung-hyun scrive e dirige con un piglio eccezionale, vuole mettere i tre ragazzi in situazioni che siano davvero rischiose, vuole filmare il loro sudore e la loro paura, vuole spaventare gli spettatori con gli spari come fossero jumpscare, adottando un sound design esagerato che però funziona tantissimo. In questo modo Time to Hunt non solo è un ottimo thriller, non solo è un gran film di crimine, ma è anche una storia di persone disperate e di fobia economica. Il sogno per uscire dalla crisi, rapinare i mafiosi, diventa un piccolo inferno, una persecuzione al limite del plausibile, come se il senso di colpa e la giustizia fossero più grossi ed esistessero a prescindere dalle forze dell’ordine.
Perseguitati anche oltre la fine della storia, ci sarà una specie di coda che lancia un seguito. La cosa peggiore del film.
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