Time to Hunt, la recensione | Berlinale 2020

Inesorabile e sempre più esagerato, metaforico e infernale, Time To Hunt è un thriller di caccia impeccabile, diretto con mano sicurissima ed interpretato con rara energia

Critico e giornalista cinematografico


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TIME TO HUNT: LA RECENSIONE

Con un attacco così…

Quando al partire della musica, si imposta il tono e già l’andare a prendere un amico che esce di galera è un momento che definisce e chiarisce il mood di tutto un film, beh allora è difficile che poi si peggiori. E difatti Time to Hunt migliora. Questa che si presenta inizialmente come una versione criminale di I figli degli uomini, in cui un futuro vicinissimo vede le città ancora più rovinate, l’economia ancora più in ginocchio (pure in Corea Del Sud!) e le regole del vivere civile ancora più precarie, è l’occasione non per una storia di salvazione ma per una di rapina. Tre ventenni decidono di fare il grande colpo, rapinare un casino della mala e scomparire.

I luoghi comuni giusti ci sono tutti. C’è il sogno di una vita migliore che coincide con un posto migliore (in questo caso poi anche con un’economia migliore), c’è la squadra un po’ scalcinata ma anche con un suo grado di professionalità e una buonissima capacità di improvvisare quel che non sa ancora fare e infine c’è un grande design dietro il camerawork. Ogni scena è infatti giocata benissimo con gli spazi in cui si muovono i personaggi, il pubblico ne ha sempre chiara cognizione in modo che proprio la via d’uscita e la dimensione dei luoghi che attraversano abbia un senso e lavori per la comprensibilità di un film fatto tutto di movimento.

Questa paranza di bambini coreani che sognano Taiwan come fosse il paradiso è un film di caccia in realtà, perché dopo la rapina (coreografata, disegnata ed eseguita benissimo, applausi) i tre sono braccati dal peggiore di tutti i cacciatori. Non sanno di aver preso qualcosa che per la mala vale molto più dei soldi. Il cacciatore si appassiona a questo scontro così duro e anche dopo averli presi li lascia liberi, per continuare a cacciare. Loro non faranno gli stessi errori due volte, e daranno battaglia fino allo stremo delle forze e fino alla fine degli pneumatici e delle pallottole.

È una Corea derelitta, illuminata con soluzioni rubate a Blade Runner 2049, quella in cui questi tre decidono di passare alla rapina, lo fanno per salvare se stessi e alcuni per salvare la famiglia (in una specie di mondo al contrario, il padre di uno di loro va alle manifestazioni e il figlio lo riprendere dicendogli che non serve a niente). Tutta la prima parte alterna scenario a pianificazione ma quando parte la caccia il film diventa concentratissimo. Ci saranno almeno 5-6 sparatorie e tutte complicate e diverse, originali e piene di narrazione al loro interno. I tre ragazzi (uno di loro è il figlio più grande di Parasite) recitano benissimo e sembrano avere sulle spalle anni di noir moderno nella maniera in cui incrociano disperazione classica e atteggiamento paramilitare moderno.

Yoon Sung-hyun scrive e dirige con un piglio eccezionale, vuole mettere i tre ragazzi in situazioni che siano davvero rischiose, vuole filmare il loro sudore e la loro paura, vuole spaventare gli spettatori con gli spari come fossero jumpscare, adottando un sound design esagerato che però funziona tantissimo. In questo modo Time to Hunt non solo è un ottimo thriller, non solo è un gran film di crimine, ma è anche una storia di persone disperate e di fobia economica. Il sogno per uscire dalla crisi, rapinare i mafiosi, diventa un piccolo inferno, una persecuzione al limite del plausibile, come se il senso di colpa e la giustizia fossero più grossi ed esistessero a prescindere dalle forze dell’ordine.

Perseguitati anche oltre la fine della storia, ci sarà una specie di coda che lancia un seguito. La cosa peggiore del film.

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