Till, la recensione

Till è a nostro avviso un film più intelligente e originale di quello che sembra: perché nel canone, nel prevedibile e nel già detto di mille altri film almeno ha la capacità di creare un’emozione tutta sua.

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La recensione di Till, al cinema dal 16 febbraio

Di film di denuncia ispirati alla Storia ce n’è una marea. Come distinguersi, allora, in questo mare magnum di j’accuse audiovisivi?

Ispirato alla storia dell’attivista per i diritti degli afroamericani negli USA Mamie Till-Mobley (interpretata da Danielle Deadwyler), Till di Chinonye Chukwu è di fatto la ricostruzione cronachistica del linciaccio avvenuto nel 1955 in Mississippi ai danni del quattordicenne Emmett Till. Un fatto che scosse l’opinione pubblica afroamericana e che grazie alla coraggiosa presa di posizione di Mamie Till-Mobley - la quale riuscì a portare a processo i due aguzzini aiutata dal NAACP, National Association for the Advancement of Colored People - agì da miccia per un movimento che portò due anni dopo al Civili Rights Act del 1957.

Nel raccontare questa vicenda la regista Chinonye Chukwu sceglie il tono melodrammatico e compie una ricostruzione che, visivamente, sembra puntare alla perfezione ossessiva dell’immagine. Vestiti e trucco sono sempre curatissimi, la fotografia impeccabile, i personaggi inquadrati sempre a favore della chiarezza visiva. Insomma Till certamente non spicca per originalità di messa in scena, e l’effetto iniziale è un po’ quello di assistere a una denuncia patinata. Tuttavia, mentre scorre Till rivela di essere mosso da una rabbia e un’indignazione non troppo comuni: se infatti molti film di denuncia si “riposano” sul pretesto stesso di raccontare qualcosa di scandaloso, senza poi lavorare quel sentimento attraverso le immagini, Till invece sceglie la strada meno facile, quella di mostrare momenti canonici in maniera piuttosto cruda e spiazzante. Proprio come volesse andare contro quel pregiudizio di perfezione che il film stesso ha creato.

Uno di questi momenti è ad esempio quello in cui Mamie sceglie di vedere il cadavere del figlio: rigonfio, emanciato, sfigurato dalla violenza. Per quanto l’aspetto puramente fotografico così perfetto e composto ci faccia pensare l’esatto opposto, Chinonye Chukwu ci mostra un corpo terribile e obbliga il nostro sguardo a fissarlo. L’emotività che scaturisce da momenti come questi (che non sono comunque tanti, ma ci sono) è quindi inaspettata e pur potendo sembrare il contrario non è mai compiaciuta.

I momenti “lacrimoni” sono parecchi, ma Till riesce ad ottenerli puntualmente perché sa costruirli. Sappiamo benissimo come andranno le cose, cosa sta per succedere. Questa consapevolezza non ci viene mai risparmiata e siamo letteralmente obbligati a vedere tutto, a subire tutto e a farlo sempre attraverso gli occhi più straziati, quelli della madre (che infatti vengono inquadrati ossessivamente). L’accumulo emotivo si fa sentire, tanto che alla fine sentiamo di non farcela più e all’ennesima scena in cui sappiamo che si insisterà sul tragico preghiamo di essere risparmiati: e invece no. Questa sensazione ci sembra però, e qui sta il discrimine, perfettamente voluta e calcolata dalla regista. Per questo motivo Till è a nostro avviso un film più intelligente e originale di quello che sembra: perché nel canone, nel prevedibile e nel già detto di mille altri film almeno ha la capacità di creare un’emozione tutta sua.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Till? Scrivetelo nei commenti!

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