Tigers, la recensione | Roma 15

Poco preciso e coerente nel dipingere l'ambiente sportivo, Tigers riesce però nei suoi momenti migliori a raccontare il bisogno di contatto umano

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sono diversi dettagli, particolari e situazioni che suonano strane nella storia di Martin Bengtsson per come viene raccontata da Tigers, il film tratto dal libro che lo stesso Bengtsson ha scritto dopo i problemi avuti nel periodo in cui era stato acquistato dalle giovanili dell’Inter. È una storia nota solo nel mondo sportivo, al momento, e il film di Ronnie Sandahl ricostruisce in maniera minuziosa cosa sia successo a questo 16enne promettente che arrivato all’Inter incontra un muro di vessazioni psicologiche a cui non resiste.

Molto di come è raccontato l’ambiente delle giovanili è intrigante perché inedito. Al posto della sete di vittoria e dell’esigenza di fare gruppo c’è la competizione per arrivare in prima squadra, al posto dello spogliatoio c’è una grande casa dove vivere tutti insieme come in un brutto reality da reti generaliste, al posto degli allenatori che formano c’è una specie di sergente istruttore che massacra.
Il protagonista è prima di tutto alienato da una lingua che non parla, l'italiano, e già che nessuno in un clima internazionale come quello parli inglese (nemmeno l’allenatore), che nessuno traduca e nessuno aiuti suona poco preciso. Come suona strano che una squadra che paga molto un giocatore (viene detto chiaro e tondo) poi non cerchi di valorizzarlo ma lo abbandoni a sé, curandosi poco della resa. Ma è solo l’inizio di una serie di dettagli che per come sono proposti stridono.

Per il resto però il racconto riesce, nei suoi momenti migliori, a toccare delle corde oneste. Ronnie Sandahl (già sceneggiatore di Borg McEnroe) gestisce bene le scene sul campo, crea una tensione buona puntando sul senso di realizzazione, il campo come rivincita e al tempo stesso sulla progressiva chiusura del protagonista. In particolare non è niente male come Erik Enge, l’attore, riesca a toccare corde di alienazione e bisogno di umanità convincenti.
Di scena quotidiana in scena quotidiana, con la scansione delle stagioni, di ellisse in ellisse tra una telefonata e l’altra dei genitori dalla Svezia, Tigers riesce a far scendere gli spettatori vicino al protagonista, almeno fino all’incontro con una modella anch’essa svedese, anch’essa stanziata a Milano.

Tigers si guadagna il proprio titolo, ma forse è la lettura più sbagliata dell’intera vicenda. Tigers fa un parallelo netto e chiaro, a parole, tra il calciatore e la modella e le tigri in gabbia. Come una tigre in gabbia obbediscono ad ordini e vivono inquadrati, la loro vitalità tarpata, il loro desiderio naturale di vivere come gli altri della loro specie soffocato. E come le tigri in gabbia possono esplodere all’improvviso in reazioni pericolose. Che è un rischio vero. Nella realtà dopo gli incidenti accaduti a Bengtsson l’Inter ha fatto ammenda e preso provvedimenti per seguire psicologicamente i ragazzi delle giovanili e prevenire depressione e altri guai. Una colpa e un problema c’erano effettivamente.

Ma anche per quel che mette in piedi e racconta il film questa metafora regge pochissimo. La grande promessa del calcio non è mai una tigre in gabbia ma semmai un cavallo addestrato, cresce in fretta come un giovane di un secolo fa e a 18 anni è già adulto, tuttavia è anche messo in condizione di esprimere il suo pieno potenziale atletico. Non è in gabbia perché nonostante la vita dura e la pressione psicologica è ammesso in un’elite in cui poter diventare qualcosa, non è mai messo in una casella da cui non può muoversi ed è sfruttato per il ludibrio altrui.
Così anche l’onesto desiderio di contatto umano che Tigers riesce ad un certo punto a raggiungere si perde nelle pieghe di una lettura poco convincente della storia (e di un finale che, in questo senso, fa ridere involontariamente).

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