Tiger Stripes, la recensione

Con uno spunto da body horror e un'ambientazione alla Apichatpong, Tiger Stripes punta forte sull'ironia del contesto che rappresenta

Condividi

La nostra recensione di Tiger Stripes, presentato nella sezione Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2023

La pubertà come momento di metamorfosi "mostruosa" per il corpo femminile, il body horror come chiave per raccontarla. Idee che recentemente abbiamo visto diverse volte, ad esempio in Blue My Mind o Junior, che hanno dimostrato come questo sotto-genere e il coming of age femminile spesso potessero coincidere. A partire dalle stesse coordinate si muove ancheTiger Stripes, esordio alla regia di un lungometraggio di Amanda Nell Eu, ibridandole però con altri riferimenti e riuscendo a trovare una propria voce.

Siamo in Malesia, ma sembra di essere nelle Thailandia di Apichatpong Weerasethakul. Foreste incontaminate dominano l'ambientazione e le abitazioni umane sono ancora primitive. L'esplorazione di questi luoghi ha quasi tratti esoterici, e la regista ci dedica lunghe inquadrature, seguendo il vagare dei suoi personaggi. Qui vive la protagonista, la dodicenne Zaffran, che con un gruppo di amiche va a scuola e nel tempo libero si diverte giocando tra gli alberi e i laghetti. Tra di loro è quella più ribelle e intraprendente, ed è anche la prima ad avere le mestruazioni. La crescita del suo corpo si rivela però non esattamente naturale, ma un'espressione animalesca della rabbia che cova dentro.

Unendo questi due universi, Tiger Stripes racconta della quotidianità delle bambine, i loro passatempi e il loro bisogno di evadere dalle restrizione che la piccola comunità gli impone. E poi del difficile passaggio dall'infanzia all'adolescenza, con una metafora immediata, ma di cui fortunatamente non fa il suo fulcro. Piuttosto che nella propria protagonista e nella sua parabola, trova il proprio motivo di interesse nel contesto che raffigura, dove la moderna tecnologia, fatta di cellulari e dirette social, invade il mondo di rituali e credenze antiche. Così il santone è più interessato a diventare fenomeno virale che a "curare" Saffran, una volta che i segni della sua metamorfosi anormale cominciano a manifestarsi. Così le amiche e la gente del posto vogliono filmarla con i propri dispostivi piuttosto che ad aiutarla. Quadretti che il film rappresenta con notevole ironia, arma con cui prende in contropiede lo spettatore. Gli elementi horror che sembra promettere fin dall'inizio sono poi a conti fatti sporadici, la violenza è spesso nel fuoricampo e vediamo il dettaglio divertente più che quello gore. I segni della trasformazione della protagonista si fanno attendere e la regista gioca dilatando una tensione che trova sbocchi inaspettati.

E poi ancora sporca questo approccio con un versante dolente che persiste anche nel finale. La crescita allontana Saffran dalle sue amiche, ancora bambine, e da tutti i suoi compagni. La definitiva emersione della sua metamorfosi nascerà proprio come risposta a un affronto di chi gli sta vicino. Così Tiger Stripes non concede spazio all'alleanza femminile, alla fraternità, neanche per chi è ancora piccolo: essere diversi significa essere liberi ma anche condannati alla solitudine.

Continua a leggere su BadTaste