Ticket To Paradise, la recensione
Tarato su standard di un'altra epoca, Ticket To Paradise riesce nel miracolo di rifare oggi il cinema migliore di ieri
La recensione di Ticket To Paradise, in sala dal 5 ottobre
Questione non solo di scrittura fatta su misura per le caratteristiche dei due (che guarda caso sono le stesse degli attori della commedia classica) ma proprio del ritmo giusto nell’interpretare quelle frecciatine, nell’accompagnarle con le espressioni giuste (che non carichino eccessivamente, che non siano troppo meta né sgravino nel melenso) e nell’essere tremendamente credibili mentre si odiano perché in fondo si amano e tramano per far saltare il matrimonio della figlia con un ragazzo conosciuto a Bali che le impedirebbe di diventare grande avvocatessa come è nei loro piani.
Americacentrismo a parte, Ticket To Paradise è un gioiello che non vuole stupire mai ma semmai fare il lavoro del cinema d’intrattenimento realizzato bene, con perizia e un acume non comuni. Specialmente da parte di George Clooney, che da quando ha incontrato i Coen sempre di più ha lavorato per demolire la stessa immagine di uomo affascinante che l’aveva reso famoso, e dagli anni ‘10 (da Paradiso amaro almeno) interpreta stabilmente personaggi mai in controllo ma sempre un po’ scemi e goffi. Ha sposato in toto il modello Cary Grant, l’uomo bello che subisce, trovando in esso ancora più fascino. Qui distrugge il classico stereotipo dell’uomo che invecchia meglio della donna e dopo il divorzio si rifà una vita in fretta (è lei semmai che ha nuove storie, lui no), trovando una maniera di interpretarlo perfetta e un appoggio non da poco in sceneggiatura chiave, uno che si comprende solo ad una seconda visione (il luogo da cui effettua la prima telefonata).