Ticket To Paradise, la recensione

Tarato su standard di un'altra epoca, Ticket To Paradise riesce nel miracolo di rifare oggi il cinema migliore di ieri

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Ticket To Paradise, in sala dal 5 ottobre

Nel vedere Ticket To Paradise viene da pensare che sia un miracolo che esista ancora qualcuno ad Hollywood in grado di scrivere un film simile, così aderente ai modelli migliori di ritmo, sagacia e umorismo della screwball comedy provenienti dall’età dell’oro del cinema americano. E al tempo stesso viene anche da pensare che sia un miracolo che ci sia ancora qualcuno che sappia interpretare un film simile, risultando credibile e anzi sapendo aggiungere strati di personalità su dinamiche note. Invece è il contrario: un film come Ticket To Paradise, così classico nel senso migliore del termine, è possibile solo perché esistono due come George Clooney e Julia Roberts. Non sono perfetti per interpretarlo, sono la causa stessa per la quale lo si può girare. Senza due attori di quel tipo, con quelle caratteristiche e soprattutto quel tipo di intesa, Ticket To Paradise (ad oggi) non viene proprio pensato.

Questione non solo di scrittura fatta su misura per le caratteristiche dei due (che guarda caso sono le stesse degli attori della commedia classica) ma proprio del ritmo giusto nell’interpretare quelle frecciatine, nell’accompagnarle con le espressioni giuste (che non carichino eccessivamente, che non siano troppo meta né sgravino nel melenso) e nell’essere tremendamente credibili mentre si odiano perché in fondo si amano e tramano per far saltare il matrimonio della figlia con un ragazzo conosciuto a Bali che le impedirebbe di diventare grande avvocatessa come è nei loro piani.

È in fondo il principio del fidanzato che non piace perché troppo diverso, solo tradotto per un’epoca che non lo accetterebbe e trasformato nell’occupazione che non piace. Niente contro Bali e i balinesi (ci mancherebbe “è un paradiso qui!”) ma loro volevano un altro futuro per la figlia. Tuttavia alcune tracce di quella visione tipica del cinema americano degli anni ‘40 scappa da tutte le parti e riaffaccia ogni tanto lungo la storia, come quando il fidanzato nonostante abbia un’impresa molto molto fiorente, sia benestante e attraente, confessa di sentirsi inadeguato alla ragazza (e perché? Perché è americana?).

Americacentrismo a parte, Ticket To Paradise è un gioiello che non vuole stupire mai ma semmai fare il lavoro del cinema d’intrattenimento realizzato bene, con perizia e un acume non comuni. Specialmente da parte di George Clooney, che  da quando ha incontrato i Coen sempre di più ha lavorato per demolire la stessa immagine di uomo affascinante che l’aveva reso famoso, e dagli anni ‘10 (da Paradiso amaro almeno) interpreta stabilmente personaggi mai in controllo ma sempre un po’ scemi e goffi. Ha sposato in toto il modello Cary Grant, l’uomo bello che subisce, trovando in esso ancora più fascino. Qui distrugge il classico stereotipo dell’uomo che invecchia meglio della donna e dopo il divorzio si rifà una vita in fretta (è lei semmai che ha nuove storie, lui no), trovando una maniera di interpretarlo perfetta e un appoggio non da poco in sceneggiatura chiave, uno che si comprende solo ad una seconda visione (il luogo da cui effettua la prima telefonata).

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