Ti mangio il cuore, la recensione

La ballata di sangue e passione di Mezzapesa manca il bersaglio, arrancando tra svolte prevedibili e una scrittura colposamente sfilacciata

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La nostra recensione di Ti mangio il cuore, il film di Pippo Mezzapesa presentato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti

Gli over 30 ricorderanno uno spot firmato da Giuseppe Tornatore per Dolce e Gabbana negli anni ’90, in cui una folgorante Monica Bellucci in spiaggia si offriva allo sguardo concupiscente di un pescatore di polpi. Ecco: immaginate ora di prendere quello spot e traslarlo dalla Sicilia alla Puglia, sostituire a Bellucci l’altrettanto splendida Elodie, e avrete un’idea di quel che Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa propone al pubblico nel suo primo atto.

E dire che, nel suo, la pubblicità di Tornatore riusciva perfettamente in ciò in cui il film in questione fallisce miseramente sin da subito: evocare. A dispetto di un bianco e nero di mirabile nitore, di una scenografia crudamente coraggiosa nel distaccarsi dai paesaggi pugliesi da cartolina, Ti mangio il cuore è un film estremamente freddo. La passione, sulla carta, ci sarebbe eccome; la storia è infatti incentrata sulla relazione clandestina tra Marilena (Elodie), moglie del boss Camporeale nascostosi da tempo nelle grotte del Gargano, e Andrea (Francesco Patanè), virgulto del capobanda rivale, Michele Malatesta (Tommaso Ragno).

Un contrasto stridente

Se Mezzapesa concentra il proprio sguardo sugli aspetti più sgradevoli della sua Puglia, conferendo al racconto visivo una solidità ricca di sprazzi di ricercatezza estetica, lo stesso non può dirsi della sceneggiatura (scritta con Antonella W. Gaeta e Davide Serino). La trama da feuilleton, satolla di violenza esibita come in un banchetto di sangue, stride drammaticamente con l’incapacità della scrittura di veicolare reali emozioni. Osserviamo melanconici il dipanarsi di questa aspirante tragedia greca mentre assume le fattezze tediose e prevedibili di un polpettone senz’anima.

Non c’è alibi per la trasandatezza dei dialoghi; non c’è alibi per il subitaneo divampare della passione tra personaggi di cui nulla sappiamo e a cui è impossibile affezionarsi. La mancata corrispondenza tra la sapiente costruzione dell’immagine e la pigrizia della scrittura fa arrancare Ti mangio il cuore verso un finale che arriva come una liberazione non tanto per la magnetica femme fatale, ma soprattutto per lo spettatore, perso in un turbine di carcasse, feci, fango e psicologie profonde quanto la carta velina.

Not so burning hearts

Fa sorridere la scelta del titolo internazionale per il film di Mezzapesa: Burning Hearts. È un sorriso amaro, poiché il cuore del film necessita di continuo defibrillatore, reggendosi a stento in piedi grazie a un susseguirsi di omicidi che tentano maldestramente di scioccare il pubblico. Peccato, ribadiamo, perché a questi delitti sono legate alcune scene di straordinaria suggestione e cura visuale; basterebbe il breve agguato su strada e la conseguente esecuzione nei campi a elevare Ti mangio il cuore sopra la media dei prodotti filmici nostrani.

E invece no; il tutto sprofonda nella palude del melò più mediocre e sciatto che si possa immaginare, disperdendo le fiammeggianti cartucce di Mezzapesa lontane, lontanissime dal bersaglio. A nulla vale la consapevolezza che la storia sia ispirata alla reale figura della prima pentita della Sacra Corona Unita; la veridicità inseguita attraverso la rappresentazione senza filtri della vita rurale è uno specchietto per allodole. Al successo dell’impresa certo non contribuisce un cast di attori di consumata bravura incastrati in un codice recitativo costantemente sopra le righe.

Sfinge nel caos

Si badi: non si punta qui il dito contro la scelta di una protagonista con nessun background attoriale alle spalle. Anzi, seppur mostrando un ventaglio espressivo in linea con la sua statuaria bellezza, Elodie è quasi un balsamo in questo turbinio di eccessi interpretativi. Non dubitiamo anzi che, al servizio di una sceneggiatura ben costruita, ella possa dimostrarsi all’altezza della centralità che quest’opera sciancata le ha riservato senza successo.

Chiudiamo con la speranza che Mezzapesa possa impiegare le proprie ormai acclarate capacità di pittore d’immagini in un’opera che sia, fin dalla carta, all’altezza del suo sguardo. I pregi di Ti mangio il cuore non bastano a cancellare le sue pecche; tuttavia, la struggente bellezza di alcune inquadrature resta impressa nella retina come i migliori scatti di un’ispirata galleria di volti e luoghi. Più che considerarlo un fallimento narrativo, preferiamo quindi ritenere Ti mangio il cuore il prodromo visivo alle future, speriamo più emozionanti fatiche di Mezzapesa. Alla prossima, Pippo.

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