Three Thousand Years Of Longing, la recensione | Cannes 75

Storie dentro una storia, il piacere di raccontare e farsi raccontare di come noi uomini conosciamo e viviamo il mondo tramite le storie

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Three Thousand Years Of Longing dritta dal festival di Cannes

È probabile che chiunque altro avesse tentato di realizzare Three Thousand Years Of Longing avrebbe finito con il girare un film di una noia insostenibile. Ambizioni, presupposti, perfino genere e idee che animano il film sono quanto di più soporifero il cinema moderno possa concepire. Vago negli intenti (parlare della forza delle storie nel plasmare vita e desideri lungo la storia dell’umanità fino al nostro presente tecnologico), pieno di ramificazioni nella pratica (è continuo di storie dentro storie) e privo di un intreccio forte anche se comunque traboccante di grandi amori lungo i secoli, questo nuovo film di George Miller è nondimeno un’esperienza piacevole, un grande raccontone fatto con la maestria dell’affabulatore e la fantasia dell’artista delle immagini che si può godere come una storia attorno al fuoco.

Delle favole (o meglio delle grandi storie tradizionali) ha i personaggi, in primis il Djinn, genio della lampada in una versione più fedele alla tradizione, che compare alla protagonista e a lei racconta le sue peripezie per stimolarla a esprimere i rituali tre desideri che lei, tuttavia, è molto riluttante a esprimere. È una narratologa, studiosa di storie, quindi sa tutto dei geni e delle lampade, soprattutto sa che i desideri finiscono sempre per ritorcersi contro chi li esprime.
Questo accenno è sufficiente a capire quanto il film si compiaccia di essere una storia sulle storie, quanto voglia raccontare con lo scopo di affermare qualcosa riguardo la forza del racconto. Molto di più poi verrà dal comparto visivo e da quella tecnica mostruosa grazie alla quale i film di Miller sembrano avvenire sullo schermo con la naturalezza della vita vera.

Se Mad Max: Fury Road si era fatto un nome, tra le altre cose, per aver realizzato davvero stunt e coreografie complicatissime, Three Thousand Years Of Longing è il trionfo del digitale. Immagini e situazioni risapute sono rese con look e impatto visivo convincenti e sempre accattivanti (bellissimo il genio gigante che non entra nella stanza). Di questo film si vuole sempre sapere di più e vedere di più. Certo, quando poi tutto comincia a scontrarsi con il tempo presente, quando finiscono le storie dentro la storia e seguiamo la protagonista (Tilda Swinton) il film assume esso stesso i contorni dei racconti che ha messo in scena fino a quel punto e forse smette di essere efficace, parla di noi, si sporca le mani con le storture del nostro tempo e scende dal piedistallo delle dinamiche universali, finendo un po’ in minore con una lunga serie di finali uno dopo l’altro.

Eppure, nonostante la vaghezza, i richiami anche ingenui a sentimenti semplici e i suoi desideri di grande emotività, non si può negare che questo djinn della lampada che in realtà è il simbolo stesso del potere della narrazione, capace di migliorare ogni cosa, oggetto del desiderio dei suoi padroni che in lui trovano conforto dal mondo esterno, che nel calore della sua presenza trovano sapienza, conoscenza e un piacere (anche sessuale!), non sia una metafora del cinema tra le più efficaci e soprattutto più semplici e dirette, per questo probabilmente anche tra le più godibili e piacevoli, da stare a sentire.

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