Three Kilometers to the End of the World, la recensione | Cannes 77

Ha quello che serve per essere un buon film Three Kilometers to the End of the World, ma sceglie il lato meno interessante della sua storia

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Three Kilometers to the End of the World, il film di Emanuel Parvu, presentato in concorso al festival di Cannes

Che Three Kilometers to the End of The World abbia lo stile dei film di Cristian Mungiu non stupisce, perché il suo regista, Emanuel Parvu, è stato attore per lui in Un padre, una figlia e poi anche in diversi altri film di registi rumeni dallo stile paragonabile. Al terzo film da regista continua a occuparsi, come nei precedenti, di storie di genitori e figli, con trame che mettono alla prova l’amore dei primi per i secondi, e lo fa proprio con quello stile essenziale di Mungiu, in cui la messa in scena è il più possibile invisibile (che non vuol dire innocua) e la scrittura è estremamente precisa, con intrecci di ferro che stringono i protagonisti, trovando le scelte più difficili a cui costringerli. Se c'è un film paragonabile a questo è Oltre le colline.

Il problema qui è la mobilità. Il protagonista, diciassettenne, in un’estate nel paesino di campagna dei suoi genitori viene picchiato brutalmente in seguito a un approccio omosessuale. Si sa chi sia stato, un uomo a cui il padre deve dei soldi, e subito viene proposto di mettere a tacere tutto per saldare il debito, ma il problema è un altro. I genitori del protagonista scoprono ora che lui è gay e la cosa è ben più grave e comporterà rimedi terribili a cui il protagonista non può fuggire perché da quel paese non si può andare via se non in barca, e all’unica a disposizione sono state levate le candele del motore. La parte interessante è quanto Parvu e la sceneggiatrice Miruna Beresco sembrino conoscere e odiare visceralmente le dinamiche provinciali, e come sappiano rappresentare in pieno l’incrocio tra voglia di mettere a tacere, profonda vergogna e arretratezza.

Se Three Kilometers to the End of the World ha un fascino quindi è nella descrizione delle dinamiche di questo posto in cui non c’è un’omofobia moderna, ma una antica e ancestrale, dove si crede che un esorcismo (legando e forzando il ragazzo in una scena dura) possa risolvere le cose, ma dall’altra parte è anche un luogo sufficientemente moderno per sapere bene che tutto ciò non è accettabile, anzi grave e se si viene a sapere avrà conseguenze terribili. È il passato all’interno della modernità, le risacche di un mondo che non è mai scomparso ma solo sparito dalle metropoli e messo sotto il tappeto della campagna. Il prete stesso dirà all’unica persona moderna (una donna che viene da fuori a indagare) la frase che riassume tutto: “Lei si fiderebbe di fare tutto quello che le dice un dottore, perché è laureato in medicina; qui si fidano di fare tutto quello che dice un prete, che è anch’egli laureato. In teologia”.

Il capo della polizia vuole insabbiare, il padre degli assalitori pure e il padre del ragazzo si vergogna molto quindi gli va bene tutto. Nessuno chiede giustizia, “per la felicità di tutti” è meglio dimenticare. Ed è un peccato allora che il film non esplori il momento migliore, quando tutto arriva all’apice e la donna mandata a indagare, unica in mezzo a uomini, potente perché ha la legge dalla sua, forte della conoscenza delle procedure e del diritto, determinata a trovare le prove per dimostrare una verità che ha già capito, combatte sul loro terreno. Three Kilometers to the End of the World però è un altro film, come detto gli interessano i genitori e i figli, la madre apprensiva che fa cose terribili convinta sia la cosa migliore per il figlio, e il padre violento e ignorante che in un finale (molto bello) lo fa andare via, costretto a un ritiro religioso, sapendo di non meritare da lui un saluto ma nondimeno, con un minuscolo gesto, dimostrando di desiderarlo tantissimo.

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