La recensione di Thor: Love And Thunder, dal 6 luglio al cinema
Se mai dovesse esistere una retcon (cioè il cambiamento a posteriori di eventi passati per renderli coerenti con una nuova trama) della centralità dei personaggi e della lettura degli eventi, allora potrebbe essere definita tale quella che
Thor: Love And Thunder fa in apertura, riraccontando la storia del suo protagonista dall’infanzia fino alle fasi che abbiamo visto nei film Marvel con un’enfasi decisamente maggiore di quella che ricordavamo sul personaggio di
Jane Foster, interpretato da
Natalie Portman. Ma non solo una storia che era molto molto maschile diventa una vicenda femminile, quella rievocata diventa anche il racconto di un personaggio costantemente in cerca di un’identità e che sostiene di non averla ancora trovata. Tutto, come sempre con
Taika Waititi, è reso accettabile da un buonissimo umorismo e da alcune idee improvvise e accattivanti.
Tuttavia, a ben ricordare, erano proprio i film di Thor, più che il personaggio, a non trovare una loro identità, in bilico tra l’epica un po’ troppo seriosa di Kenneth Branagh e l’esigenza di integrarsi in un universo cinematografico che puntava invece sempre di più sulla leggerezza, fino ad approdare al puro umorismo attuale. E adesso Thor: Love And Thunder, nel raccontare apertamente la ricerca di un’identità per Thor, ratifica, cementa e punta tutto sul demenziale, finendo la mutazione del personaggio da austero Dio in pura macchietta. Sexy macchietta, macchietta eroica, macchietta con cui empatizzare. Perché alla fine (ovviamente) troverà una nuova personalità, ma c’è da chiedersi se questa volta sia definitiva o se l’essenza e il destino di questo personaggio siano un continuo mutare.
E per quanto non ci siano dubbi sul fatto che
Thor: Love And Thunder contiene tutta la piacevole scorrevolezza dei film Marvel e l’umorismo centrato ed equilibrato di Waititi, è anche evidente che non sia tra i capitoli Marvel scritti meglio. L’uso di pretesti narrativi è più esposto e pigro che mai: c’è un villain che odia gli dei e li vuole fare fuori tutti per ragioni personalissime (più diretto di così…) e ad un certo punto a giustificare l’azione ci sarà anche un bieco rapimento. Sull’altro fronte compare invece “la malattia mortale” a creare la tensione emotiva. Ad essere mosse sono insomma le armi basilari del cinema, in una cornice come ampiamente annunciato molto anni ‘80, nel senso più barocco del termine, ma (anche questa) scritta con grande semplicità e pretestuosità. Tre brani dei
Guns ‘n Roses in colonna sonora e una scena iniziale con dei villain che sembrano usciti da copertine metal dell’epoca (o dalla fantasia di
Jim Henson), più un costume per Thor che ricorda quello di
Kurt Russell in
Grosso guaio a Chinatown. Questo è più o meno quanto. Dello stile del cinema anni ‘80, delle idee, delle sottoculture o anche solo dei toni di quei film non c’è traccia. Non è insomma qualcosa di paragonabile a quel che
James Gunn aveva fatto con
I guardiani della galassia (in cui l’epoca era cruciale anche nella vita di Starlord) i quali compaiono all'inizio come ad agevolare l'introduzione del tono, ma semmai un’operazione ben più superficiale. Il cinema è fatto di trucchi e di espedienti per accattivare il pubblico, questo però è un trucco davvero mal mascherato.
Nonostante, vale la pena ripeterlo, il film sia godibile come sempre per i Marvel Studios (e per il regista), stavolta forse personaggi e situazioni pienamente nelle corde di Taika Waititi spingono quell’idea di film troppo in là. Waititi gioca con l’umorismo più demenziale possibile (anche più di Thor: Ragnarok) cercando di non cedere un passo su un importante lato sentimentale. Obiettivo anche più alto di quanto non lo fosse in Jojo Rabbit, un grande affetto unito a una parte comica molto spinta. Ma non riesce in quella maniera.
Thor: Love And Thunder è insomma il film in cui scopriamo il limite del talento di Taika Waititi.
Cosa ne pensate della nostra recensione di Thor: Love and Thunder? Ditecelo nei commenti!