They Shall Not Grow Old, la recensione

Con immagini della prima guerra mondiale modernizzate con colore e frame rate, They Shall Not Grow Old in realtà copre il vero grande racconto delle voci dei reduci

Critico e giornalista cinematografico


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Il pretesto tramite il quale They Shall Not Grow Old riesce a portare in sala 90 minuti di immagini della prima guerra mondiale fornite a Peter Jackson dall’Imperial War Museum britannico, è che queste immagini sono state trattate e modernizzate. Si tratta di un processo di colorizzazione molto accurato (niente a che vedere con la maniera in cui qualche decennio fa venivano colorati i film in bianco e nero) e soprattutto un adeguamento del frame rate (in certe sale sono anche in 3D). Dai circa 13 fotogrammi al secondo originali (che danno quella caratteristica velocizzazione alle riprese mute) si passa ai 24 canonici del cinema. Al passo giusto e con i colori giusti sembrano immagini moderne, annullano la patina del tempo ma mantengono quella del cinema.

Questo è il pretesto che viene sbandierato, il ritrovato che impressiona, il lavoro che rende il documentario unico e da vedere. Guardandolo però è subito evidentemente che esistono due tipologie di immagini nel documentario: quelle d’archivio lavorate per sembrare moderne e quelle evocate dalle voci fuoricampo. A narrare sono infatti le voci e i racconti dei soldati (anch’esse materiale d’archivio) selezionate e montate assieme alle immagini per formare un lungo racconto per temi: l’arruolamento, la vita in trincea, le donne, il conflitto, la morte, il nemico e poi ancora il mangiare, la pulizia e la fine della guerra.

La sfida di Jackson è di sostenere entrambe, lavorare al meglio il bianco e nero e poi tagliare i racconti, unirli e farne un flusso tale da creare immagini altrettanto potenti. Il risultato è che non c’è battaglia, le immagini evocate a parole sono decisamente più potenti.

Ci sono momenti, sensazioni e proprio visioni ricostruite dalle voci dei soldati che sono letteralmente pazzeschi e nessuna delle immagini che le coprono è a livello. L’inerzia e la strana calma piatta senza entusiasmo della fine della guerra, la faccia e l’atteggiamento di chi era rimasto in città scoperto dai reduci al ritorno, la sensazione di esaltazione di alcuni momenti all’inizio della guerra da parte di persone che non sapevano niente, l’arruolamento senza regole di minorenni, la percezione umana del nemico, la puzza ovunque o il cameratismo. Quello che Jackson ha scelto non sono i racconti clamorosi ma l’ordinarietà di tutti i giorni, la normalità di persone comuni che niente sapevano della guerra, che avevano idee completamente fallaci rispetto a quel che gli sarebbe accaduto e che in molti casi si trovavano anche bene, tra amici, con uno scopo. E la maniera in cui le ha montate insieme è un lavoro di rammendo che ha dello stupefacente per ritmo e capacità di creare un grande racconto coerente e appassionante a partire da resoconti tutti diversi tra loro.

Al contrario il lavoro sul montaggio video è un grande flusso che tiene impegnati gli occhi, stupisce solo inizialmente (quando dal normale bianco e nero delle immagini in città ci si apre alle immagini modernizzate sul fronte) e più che altro accompagna e sostiene i racconti senza stancare mai. Il regista che con Forgotten Silver aveva creato un finto documentario che raccontava di un falso genio del cinema mai esistito, ora falsifica, tratta e modifica immagini d’epoca (aggiungendo in certi casi anche un audio posticcio ma fedele) per creare una versione attuale del passato, più vera delle immagini d’epoca perché si distingue il sangue, si vedono la sporcizia dei colori slavati e si coglie meglio l’assurdità delle facce di un’altra epoca. E tutto per cercare il massimo possibile del realismo e della quotidianità nelle voci dei reduci.

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