They Carry Death, la recensione | Venezia 78
They Carry Death (in originale Eles Transportan a Morte) parte da una grande idea, ma si perde in una ricerca filosofica inaccessibile
Raggiungono così le isole Canarie, un territorio aspro, nel quale devono tentare di ripartire e sopravvivere. Nel frattempo si svolge una seconda storia, debolmente collegata alla prima per un legame famigliare. Una donna trova la propria sorella svenuta a terra. Sta per morire. Decide così di portarla da una guaritrice. Anche lei intraprende un viaggio della morte (da cui il titolo They Carry Death) in cui la fine della vita si consuma letteralmente sulle spalle di un essere vivente.
They Carry Death è però un film oscuro. Che vuole stimolare interrogativi più che dare risposte. Un viaggio che bisogna essere ben disposti ad accettare. Si tratta di cinema contemplativo, fatto di gesti compiuti nella loro interezza. Bisogna legare una corda? Lo vedremo fare dall’inizio fino alla fine. Devono camminare oltre un ostacolo? La regia si sofferma per tutto il tempo necessario. I movimenti di macchina sono al minimo, quello che si vede è oggettivo, un quadro entro cui pensare.
Purtroppo però They Carry Death è così autoreferenziale da non dare alcun appiglio allo spettatore, nessuno stimolo per entrare nel gioco e partecipare. Per quanto ben composte, le inquadrature faticano a trovare una loro originalità, una ragione per essere esplorate fino in fondo. Michelangelo Frammartino con Il buco, anch’esso un’opera costruita sulle immagini contrapposte, tocca le stesse corde, ma lo fa mettendo sullo schermo paesaggi che l’occhio può esplorare come un quadro. Ha trovate di luci e di colori che stimolano una ricerca di senso. They Carry Death invece non è nulla di questo. Ha solo un momento veramente degno di nota, ed è sul finale. Un cadavere bruciato al contrario. Il fuoco che scaturisce dalle ceneri e divampa fino a ricostruire una parvenza di forma.
Mentre la donna muore c’è chi vive: i tre naufraghi che avrebbero dovuto essere impiccati. Ma non ci è dato sapere cosa passi nella loro testa, non c’è un afflato vitale, una voglia di riscatto. Solo animalesca sopravvivenza.
L’unica cosa che veramente rimane come esperienza artistica e sperimentale è la dilatazione del tempo. Uno spazio lasciato dalla regia ai sui personaggi per fare, vivere, esistere. In cui essi invece stanno un passo indietro, non si affermano come individui. Forse, nella visione di Helena Girón e Samuel M. Delgado è quello che non ci lasciano la storia e le cronache: lì ci sono i nomi, le personalità, e i fatti. In questo film c’è il loro dolore e l’angoscia di vivere.
Il film è stato presentato nella sezione Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia.