The World to Come, la recensione | Venezia 77

The World to Come con la forza non solo visiva ma anche finalmente narrativa dalla sua parte regala un nuovo, importante, punto di vista femminile

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È all’interno della recente revisione della frontiera americana nella sua dimensione storica – vista ora nei suoi aspetti sociali più che mitopoietici – che si inserisce anche The World to Come, secondo film diretto da Mona Fastvold, la quale però stavolta si affida a una sceneggiatura non sua ma di Jim Shepard e Ron Hansen (quest’ultimo è infatti lo sceneggiatore di L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik, che lavorando invece proprio sul genere decostruiva la leggenda del bandito). Ma ora, oltre al realismo storico, si aggiunge anche un discorso che è sempre stato lasciato in disparte: ovvero le conseguenze del pionierismo sulla figura femminile, che Mona Fastvold restituisce con grande intelligenza attraverso la dimensione più intima e privata.

Siamo nel Midwest, è il 1856 e Abigail (Katherine Waterston) e suo marito Dyer (Casey Affleck) conducono una vita semplice nella loro fattoria isolata dal mondo, che quasi sembra stare fuori da ogni cartina geografica (e proprio l’atlante si rivelerà qui un importante simbolo). Abigail pare essere a suo agio in quella vita, ma dopo la morte improvvisa della figlia sviluppa il bisogno di sostituire quella presenza con un’altra: perché quella di Dyer, ovvero la presenza maschile, è sicuramente insufficiente. Ecco allora che l’arrivo di Tallie (Vanessa Kirby) le permette finalmente colmare quel vuoto, riempiendosi non solo di nuovi sentimenti ma anche di nuove consapevolezze rispetto al suo ruolo sociale e alle costrizioni che ha sempre accettato.

L’ostacolo, la terra ostile, è allora la controparte maschile: incapace di ascoltare (nonostante qui gli uomini affermino il contrario), presente ma distante, o – nel caso del marito di Tallie, Finney (Christopher Abbott) – presente ma come figura angosciosa e terrorifica – il maschile trasforma la frontiera in un recinto, il pragmatismo dell’american dream in un incubo. Abigail e Tallie lottano per conquistare sì un nuovo spazio, ma uno spazio tutto loro, fatto di immaginazione e autodeterminazione.

Mona Fastavold, con l’eleganza di un lavoro che va sempre verso la sottrazione, si libera finalmente del manierismo eccessivo di The Sleepwalker e riesce a cogliere la tensione vitalistica di queste due donne, quel desiderio profondo di poter finalmente scegliere qualcosa per sé. E quando Abigail guarda fuori dalla finestra nelle sue lunghe attese di Tallie, la Fastvold sa restituire esattamente lo sguardo del personaggio, i suoi pensieri, quell’atteggiamento bambinesco e un po’ naif che rivela la trepidante eccitazione della novità e del segreto.

The World to Come ricorda a tratti un altro film recente sulla condizione femminile all’interno della Storia, ovvero Ritratto di una giovane in fiamme: dove lì a farsi metafora della libertà conquistata c’era la pittura, qui c’è la letteratura (Abigail e Tallie si scrivono in continuazione, e tutto il film è organizzato dalla voce fuori campo di Abigail che legge il suo diario, lasciandosi andare al ricordo). The World to Come riesce però a fare un passo ulteriore, e con la forza non solo visiva ma anche finalmente narrativa dalla sua parte regala un nuovo, importante, punto di vista femminile.

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