The Witcher (stagione 3, Volume 2): la recensione

The Witcher chiude l’esperienza di Henry Cavill nei panni dello Strigo, regalandogli un addio più che degno – in attesa del suo erede

Condividi

The Witcher, la recensione della Volume 2 della stagione 3, disponibile su Netflix

Tutto sommato poteva andare peggio. The Witcher chiude la sua terza stagione con l’addio a Henry Cavill, che verrà sostituito da qui in poi da Liam Hemsworth, e riesce nell’impresa di mantenere comunque alto l’interesse per la storia raccontata nonostante la – non neghiamolo – gravissima perdita del suo volto più noto, nonché adorabile nerd che ama profondamente il mondo creato da Sapkowski e negli ultimi anni ha fatto di tutto per cercare di rendergli giustizia, finendo per risultare qualcosa di più che un semplice attore protagonista al cui personaggio è dedicato il titolo della serie.

Cavill è stato in questi anni non solo il cuore di The Witcher, ma anche l’ideale anello di congiunzione tra i fan dei romanzi (e dei videogiochi) e una produzione che fin dall’inizio è stata vista con sospetto soprattutto dalle fasce più puriste dei Geraltiani. Cavill era lì (anche) per lo street cred, era colui a cui si potevano appaltare certe interviste per fargli dichiarare “stiamo facendo di tutto per aumentare la fedeltà alla fonte”; Cavill era quello che, se chiudevi gli occhi e lo ascoltavi parlare, era indistinguibile da Doug Cockle, il doppiatore di Geralt nel kolossal The Witcher 3, perché era innamorato del gioco e voleva omaggiarlo il più possibile.

Ora Cavill non c’è più, e come dicevamo le ultime tre puntate della terza stagione, che chiudono l’arco iniziato circa un mese fa con le prime cinque, non cedono alla tentazione di essere dedicate esclusivamente a lui – non c’è alcuna scelta meta-televisiva, la stagione è stata scritta ed eseguita senza mezzo pensiero all’imminente cambio di volto del protagonista, e questo non può che farle bene. Aiuta che la prima tranche di questa terza stagione fosse più lunga, più ricca e disseminata di briciole di indizi e cliffhanger di ogni genere: negli ultimi tre episodi, Lauren Hissrich e il resto del team possono alzare il ritmo e pigiare su un metaforico acceleratore, facendo muovere decine di pedine contemporaneamente sulla stessa scacchiera senza mai perderne di vista una o dimenticarsi gli infiniti intrecci che le legano.

Il sesto episodio, in particolare, è un manifesto di quello che The Witcher dovrebbe continuare a fare per trovare finalmente un equilibrio e smettere di essere vista, nella migliore delle ipotesi, come una serie da “sì, ma…”. Tutti gli oggetti lasciati sospesi nel vuoto alla fine del quinto episodio crollano a terra rumorosamente, scontrandosi e generando il più grande e piacevole casino che si sia mai visto in questa serie, in una battaglia campale che da sola fa avanzare la trama più dell’intera seconda stagione. Si formano nuove alleanze, si infrangono quelle vecchie, ci sono tradimenti, doppi e tripli giochi, una lunga serie di morti più o meno eccellenti (che forse tradiscono anche un po’ di frettolosità nella scrittura, probabilmente imposta dall’alto) e tutto quello che abbiamo sempre voluto vedere in una serie che parla di maghi, streghe, mutanti e mostri.

Con il settimo episodio, The Witcher si concede invece il lusso del più classico degli episodi-bottiglia, non tanto in termini di economia di mezzi quanto nel senso che è interamente incentrato su Cirilla e serve solo a darle la possibilità di prendere coscienza di una lunga serie di cose che aiuteranno a definirne il carattere e le scelte nelle prossime stagioni (e anche in un paio di momenti nell’ottavo episodio). Si sapeva fin dall’inizio, ma nel caso servissero conferme questo finale di terza stagione ribadisce una volta di più che The Witcher è prima di tutto la storia di Ciri, nella quale tutti gli altri, compresi Geralt e Yennefer, sono deuteragonisti.

Questa chiarezza di intenti non impedisce a “Dalla brace alla padella” di inciampare comunque in un paio di scelte discutibili, anche estetiche. Ma d’altra parte The Witcher funziona meglio quando le cose succedono: quando la serie tira il freno non sempre riesce a reggere la sua stessa gravitas. Accade in particolare in una sequenza dell’ottavo e ultimo episodio, più ondivago del sesto come qualità ma altrettanto intricato e intrigante. Comunque un buon modo per chiudere la stagione, e un discreto addio per Henry Cavill, che si regala un paio di combattimenti proprio sul fischio finale e interpreta tutte le sue ultime scene con l’aria un po’ malinconica di quello che vorrebbe che le cose fossero andate diversamente.

Anche noi lo vorremmo, ma impareremo, si spera, a farcene una ragione: in questo senso, il povero Liam Hemsworth ha una responsabilità enorme, perché si ritrova a sostituire l’unico elemento, in una serie altalenante sotto molti punti di vista, che ha sempre messo d’accordo il 100% del pubblico. C’è da dire però che arriva nel contesto di un progetto che sembra finalmente aver trovato una sua identità e aver limato quelli che erano i difetti più evidenti. Certo, il fatto che Cavill abbia abbandonato la nave (anche) per le solite generiche “divergenze creative” non è rassicurante, e c’è il rischio che la serie faccia dei passi indietro ora che non c’è più il suo custode a tirare le redini. Ma, forse perché la terza stagione si è conclusa su note altissime e ci ha lasciato la curiosità di vedere come faranno proseguire la faccenda, abbiamo deciso di avere fiducia, e di credere nel progetto. Ci risentiamo nel… 2024? 2025? Non chiedetelo a noi, chiedetelo a Liam Hemsworth.

Continua a leggere su BadTaste