The Witcher (prima stagione): la recensione

La prima stagione di The Witcher si assume il rischio di un’originalità che può non piacere a tutti, operando scelte estetiche e narrative peculiari

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“Se devo scegliere tra un male e un altro, preferisco non scegliere affatto”, dichiara con estrema schiettezza Geralt di Rivia (Henry Cavill) nel primo episodio di The Witcher; a questa presunta neutralità, lo strigo nato dalla fantasia di Andrzej Sapkowski contravviene più e più volte nel corso delle otto puntate che costituiscono questa prima stagione dell’attesa serie targata Netflix, dimostrando di avere - a dispetto di chi lo addita come mostro - una coscienza pregna di umanità e senso di giustizia, oltre che un’innata propensione a parteggiare per i più deboli. 

È proprio quest’ultima la caratteristica di Geralt che più emerge da questo difficile adattamento delle opere di Sapkowski, ed è il collante immediato tra lo spettatore e questo protagonista cinico e scontroso, apparentemente mosso unicamente dal vil danaro. Non ci vuole molto per comprendere che, dietro questa facciata adamantina, Geralt stia celando un passato intriso di sofferta emarginazione. In tal senso, l’interpretazione di Cavill diverte e innamora sin dai primi minuti, convincendo oltre ogni possibile, legittimo scetticismo sull’adeguatezza di questa azzardata scelta di casting.

Il resto del comparto attoriale della serie si allinea qualitativamente all’ottima prova di Cavill; la Yennefer di Anya Chalotra appassiona con il suo iter di crisalide, colpendo lo spettatore con una metamorfosi percepibile nel cuore prima ancora che nel corpo. Seguiamo inoltre con trepidazione l’odissea della giovanissima Ciri, cui Freya Allan conferisce una delicatezza infantile che contrasta efficacemente con lo spirito guerriero che già sentiamo scorrere nelle vene del personaggio.

L’iniziale ripartizione della trama in tre filoni distinti, ciascuno con a capo uno dei tre personaggi principali, origina una costruzione narrativa originale e sorprendente, che lo spettatore potrà comprendere e apprezzare appieno - non senza un certo stupore - solo a partire dal terzo episodio. A Geralt è affidata la parte più procedurale della serie, che vede lo strigo imbattersi in creature e situazioni diverse puntata dopo puntata; la scelta garantisce varietà interna alla stagione, sebbene non giovi sempre a favore della sua coesione e di un valido climax emozionale a lungo termine.

Sul piano estetico, The Witcher fluttua tra picchi visivi di sublime suggestione e pericolosi scivoloni nella pacchianeria più dozzinale, con costumi bizzarri e scenografie sontuose che si fanno vessillo di un’estetica eclettica e di una mescolanza di stili non sempre del tutto riuscita. Stesso dicasi per la computer grafica, per lo più convincente, che compie però qualche sporadico passo falso. Un prezzo accettabile da pagare, alla luce della complessiva credibilità di questo universo fantasy che sembra non voler rinunciare a nulla. 

Ci sono gli intrighi politici, certo, ma siamo lontani anni luce dagli scontri dinastici di Game of Thrones; c’è avventura, ma non somiglia in niente allo spensierato idealismo dei capisaldi tolkeniani del genere: The Witcher si assume infatti il rischio di un’originalità che ad alcuni potrà sembrare guazzabuglio. Manca, è vero, di quell’ampio respiro cui altre saghe fantastiche ci hanno abituato, finendo troppo spesso per assomigliare a un’antologia di racconti - o a missioni di un videogioco, dirà qualcuno con buona pace di Sapkowski - a dispetto del suo pur citato sviluppo orizzontale.

Eppure, malgrado i suoi innegabili difetti stilistici e una certa superficialità narrativa nel seguire l’evoluzione dei personaggi - cui fa eccezione solo Yennefer - la serie compie questa prima parte del suo cammino senza eccessive esitazioni, cosa ancor più lodevole considerando le alte aspettative che il progetto portava con sé. Avanza spavalda col coraggio di chi rivendica la propria unicità, in linea con la mostruosità (dal latino monstrum, unico) del proprio bizzarro, affascinante protagonista; e, con la sua stessa onestà talvolta goffa, non si preoccupa minimamente di piacere a tutti.

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