The Witcher: Blood Origin, la recensione
Blood Origin, il prequel-ma-anche-un-po’-spinoff di The Witcher, soffre di cattiva scrittura e troppo poco tempo a disposizione
La recensione della miniserie The Witcher: Blood Origin, su Netflix dal 25 dicembre
È tantissima roba, ipercompressa in quattro episodi tre dei quali sotto l’ora di durata che tirano in ballo, tra le altre cose, anche una pretestuosissima e quasi imbarazzante sottotrama di rivoluzione proletaria che c’entra con il resto della miniserie come Jonny Cloaca con il cinema di Terrence Malick. Nessuno dei Sette ha granché modo di brillare; i riflettori sono dedicati per la maggior parte del tempo alla coppia composta da Sophia Brown e Laurence O’Fuarain, guerrieri rivali uniti all’improvviso da una causa comune e forse non solo da quello. Il resto del gruppo, Michelle Yeoh in testa, è sprecato, trattato da funzione narrativa più che da insieme di personaggi ai quali ci si dovrebbe affezionare.
Non aiuta che, nella fretta di arrivare in fondo e far collassare gli universi, la serie si regga su dialoghi elementari e su soluzioni narrative altrettanto banali, alcune delle quali peraltro non reggono a un’occhiata appena un po’ più attenta. Né che il budget sia stato speso quasi interamente nei costumi dell’Imperatrice (Mirren Mack, irriconoscibile rispetto a Sex Education), e il resto, scene d’azione comprese, sia annegato sotto una CGI tristanzuola. Taceremo poi del finale e delle sue conseguenze sulla serie principale, perché l’abbandono di Cavill ha già fatto abbastanza male alle speranze del franchise. Una cosa è certa: non è Blood Origin che riaccenderà la fiammella.