The Witcher: Blood Origin, la recensione

Blood Origin, il prequel-ma-anche-un-po’-spinoff di The Witcher, soffre di cattiva scrittura e troppo poco tempo a disposizione

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La recensione della miniserie The Witcher: Blood Origin, su Netflix dal 25 dicembre

Approcciate The Witcher: Blood Origin con le aspettative pari a zero e potreste uscirne, se non soddisfatti, quantomeno non mortalmente delusi. Troppo pochi quattro episodi per raccontare con efficacia quella che di fatto è l’evento fondamentale di tutto l’universo di The Witcher – e non parliamo della creazione del primo Strigo, che pure è una delle storyline principali della miniserie. No, Blood Origin ha l’ambizione di raccontare la Congiunzione delle Sfere, il cataclisma magico che ha portato ogni sorta di mostro (umani compresi) nel Continente; e di farlo con troppi pochi soldi, e troppe cose da dire per dedicare tempo sufficiente ad alcuna di queste.

La cornice un po’ frettolosa (aggettivo che si può applicare anche a tutto il resto della serie) è una visione del sempre adorabile Jaskier, che durante una sanguinosa battaglia viene visitato dallo spirito elfico di Minnie Driver (più sorpresa di noi della sua presenza), la quale gli suggerisce/impone di scrivere un poema epico su una storia ormai dimenticata. Detta storia è la lotta dei Sette contro Uno, uno scontro meno impari di quanto sembri nel momento in cui “Uno” è un intero impero, nato nel sangue e con intenti colonizzatori. I Sette sono un gruppo di [guerrieri]/[ladri]/[spadaccini]/[mercenari] che si ritrovano un po’ per caso un po’ per fato a lottare insieme contro l’Imperatrice e il suo Mostro Da Un’Altra Dimensione – perché il vero potere dell’Impero è la sua capacità di aprire portali per altri mondi, verso i quali hanno forti istinti colonizzatori.

È tantissima roba, ipercompressa in quattro episodi tre dei quali sotto l’ora di durata che tirano in ballo, tra le altre cose, anche una pretestuosissima e quasi imbarazzante sottotrama di rivoluzione proletaria che c’entra con il resto della miniserie come Jonny Cloaca con il cinema di Terrence Malick. Nessuno dei Sette ha granché modo di brillare; i riflettori sono dedicati per la maggior parte del tempo alla coppia composta da Sophia Brown e Laurence O’Fuarain, guerrieri rivali uniti all’improvviso da una causa comune e forse non solo da quello. Il resto del gruppo, Michelle Yeoh in testa, è sprecato, trattato da funzione narrativa più che da insieme di personaggi ai quali ci si dovrebbe affezionare.

Non aiuta che, nella fretta di arrivare in fondo e far collassare gli universi, la serie si regga su dialoghi elementari e su soluzioni narrative altrettanto banali, alcune delle quali peraltro non reggono a un’occhiata appena un po’ più attenta. Né che il budget sia stato speso quasi interamente nei costumi dell’Imperatrice (Mirren Mack, irriconoscibile rispetto a Sex Education), e il resto, scene d’azione comprese, sia annegato sotto una CGI tristanzuola. Taceremo poi del finale e delle sue conseguenze sulla serie principale, perché l’abbandono di Cavill ha già fatto abbastanza male alle speranze del franchise. Una cosa è certa: non è Blood Origin che riaccenderà la fiammella.

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