The Weekend Away, la recensione

L'avventura di due amiche in Croazia diventa un thriller che annacqua le idee di paura da turista di Hostel in un film alla fine più che innocuo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Weekend Away, disponibile su Netflix

Quanto a lungo è possibile nascondere la propria insipienza?

The Weekend Away ha un inizio sorprendentemente decente (per quanto ordinario), sorprendente soprattutto considerato quel che verrà, la discesa negli inferi croati di questo film di tourism-exploitation per spettatori che davvero non vogliono essere turbati sul serio ma preferiscono il riflesso di un thriller serio, la rappresentazione annacquata della ansie e dei timori che animano i film veri. Chi non vuole impegnarsi né ha a cuore qualcosa di minimamente sofisticato ma la ripetizione di tutto quello che è già noto ed è stato già visto per il massaggio della percezione sarà accontentato.

Due donne, due amiche che la vita si suppone abbia iniziato a dividere, la prima con un marito e un figlio appena nato, la seconda con una separazione e molta voglia di rimettersi nel giro degli appuntamenti, della vita notturna e del divertimento si incontrano in Croazia per un weekend proprio tutto matto matto. Una, Christina Wolfe, è caratterizzata subito da trucco e abbigliamento aggressivo e pieno di fiducia in sé, vuole piacere, vuole divertirsi; l’altra Leighton Meester (dritta da Gossip Girl) è invece la neo mamma dimessa che ha deposto tutte le armi. La prima trascina la seconda in una serata di follie di cui non vediamo nulla se non il risveglio la mattina dopo, senza memoria e da sola della neomamma. Cosa ne è stato dell’amica, che è successo e come fare a ritrovarla è il punto del film.

Di certo non è il viaggio a ritroso di Una notte de leoni, ma più una variazione innocua sulle idee di Hostel (l’Europa turistica, fatta di locali, centri cittadini caratteristici, bnb, guide, escort e tassisti, è un luogo pieno di insidie in una lingua sconosciuta) senza sangue e senza timori ma con tutto il campionario di quel che una ragazza per bene può temere (timore di essere guardata, timore della polizia, timore di rimanere sola, timore degli uomini che ha accanto, diffidenza dei locali). Ma davvero la regia di Kim Farrant è così sconsiderata da non porsi le domande più basilari per dare, almeno, alle sue scene un andamento coinvolgente, per non mettere gli attori nella posizione di recitare momenti ridicoli, per nascondere una produzione dozzinale e un interesse per il film stesso pari a zero.

Un secondo finale, non più in Croazia, cercherà di inserire una lettura che un film serio e ben fatto sarebbe riuscito a fare all’interno della storia, e non in una coda a parte.

C’è solo da sperare che Netflix almeno l’abbia pagato poco…

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