The Watchers, la recensione

La recensione di The Watchers, il thriller / horror di Ishana Shyamalan con Dakota Fanning, al cinema dal 6 giugno

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Watchers, il film con Dakota Fanning in sala dal 6 giugno.

Che fine aveva fatto Dakota Fanning? Parti marginali in serie TV, la spalla di Denzel Washington nel terzo capitolo (quello italiano) di The Equalizer, una parte piccola nell’ultimo film di Tarantino e poi ancora altre parti piccole in serie TV, o parti grandi in film indipendenti. The Watchers rientra nella seconda categoria: film piccoli in cui essere il nome di richiamo maggiore. Eppure, se c’era una cosa che la caratterizzava da bambina, era una capacità di veicolare intensità (ciò che il cinema commerciale chiede di più agli attori) senza sembrare artificiosa, cioè senza ricorrere alle solite espressioni e alle solite routine degli attori. Aveva la capacità di dare l'impressione di vivere realmente quei sentimenti perché la maniera in cui li esternava era sua: unica e personale.

È difficile non pensarci mentre si guarda Dakota Fanning interpretare una ragazza che prende una delle peggiori decisioni della sua vita, addentrandosi in un “bosco metaforico”, quel tipo di luoghi in cui accadono cose che ci è ben chiaro essere lì per fare da metafora ad altro. E quindi non importa se hanno scarso senso o scarsa plausibilità... tanto sono metaforiche. Nel caso specifico, quel bosco da cui non si esce è pieno di creature; ci sono altre persone lì che si rinchiudono ogni notte in una costruzione, una casetta con una parete di vetro. Da dentro non si vede fuori, da fuori si vede dentro. E proprio il guardare gli umani è ciò che placa le creature. Una valanga di altri simboli (gabbie, riflessi, uccellini, un lago, una barca, i video, ecc.) popoleranno poi il film. Vale la pena precisare che molte delle scene di paura sono recitate davanti a quella parete di vetro che da dentro è uno specchio, cioè i personaggi in realtà guardano se stessi.

Il punto è in teoria fare un film di paura con dietro un’idea. Solo che di paura non ce n’è molta; semmai ci sono degli spaventi (che non è proprio la stessa cosa, ma è più come scambiare le cause con gli effetti), indotti in modi che non rendono onore al cognome Shyamalan. C’è infatti la figlia di M. Night Shyamalan dietro questo film. Dimostra una buonissima mano, tecnicamente parlando, ma non una grande fantasia per la tensione (che poi è ciò che caratterizza i film del padre). Soprattutto, non dimostra grandi capacità di direzione degli attori, il che è più grave.

Lungo tutto il tempo e specialmente nel lungo e articolato finale, ancora una volta, non c’è niente di quello che aveva reso nota Dakota Fanning: recita assecondando ogni possibile convenzione, in armonia con un film che, al netto della particolarità del proprio spunto (è tratto da un romanzo), sceglie sempre la strada più rituale, convenzionale e abituale. E al netto delle grandi metafore (che più grandi sono, più sono generiche, e più generiche sono, meno dicono qualcosa che possa essere vero per qualcuno da qualche parte) è questo il vero problema del film: non trovare mai una maniera di avere personalità.

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