The Warrior - The Iron Claw, la recensione

Ci sono molte possibili storie dentro The Iron Claw e tra tutte il film sceglie quella del protagonista, affidandosi a Zac Efron

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di The Warrior - The Iron Claw, il film con Zac Efron in sala dal 2 febbraio

Il corpo è la lingua nella quale Zac Efron recita meglio. Lo ha fatto fin dall’inizio, con un progressivo farsi atletico del ballo di High School Musical (le tre versioni cinematografiche) e poi con una carriera in cui quello che il suo corpo è fatto per sembrare ha coinciso spesso con quello che i suoi personaggi effettivamente erano (emblematico il caso di Cattivi vicini 2, in cui il fisico è ciò che identifica anche il suo personaggio cosa che scatena una crisi di identità). The Iron Claw lo mette ancora più in primo piano, così pompato che non è possibile vedere altro, così grosso che condiziona la sua vita e agisce in contrasto alla sua personalità, per definirla. È il più grosso dei fratelli, quindi il punto di riferimento ma anche il più fragile mentalmente e il più impreparato sentimentalmente. Da quello parte il film e quando lo usa come sostegno trova i suoi momenti migliori. È invece nella seconda parte, quando cerca qualcos’altro e si mette al servizio di Efron come attore a tutto tondo che dimostra che forse il risultato non merita lo sforzo.

La storia sarebbe infatti quella di una famiglia composta da 5 fratelli, di cui uno morto da bambino, figli di un padre lottatore di wrestling, che negli anni ‘80 è arrivato a creare un piccolo impero di provincia con la sua lega e che tramite i suoi figli, addestratissimi, pompatissimi e preparati a essere campioni di wrestling, tenta la scalata alla lega maggiore. La famiglia è il nucleo di cui vuole parlare il film, nonostante si concentri moltissimo sul fratello maggiore, Efron, sul suo senso di responsabilità, sulla dedizione e in un certo senso l’inadeguatezza alla cosa per la quale ha dedicato tutta la vita (l’incubo americano: che tutta la fatica e l’impegno possano non essere ricompensati mai e che i sogni siano quindi irraggiungibili). Per tutto il tempo la sensazione è che la vera storia sia quella degli altri fratelli, il loro l’angolo migliore per raccontarla. Efron non riesce mai a sostenere il dramma, non riesce mai a creare un personaggio complicato in una situazione (tratta da una storia vera) che complicata lo sarebbe.

È la situazione di una famiglia che è ritratta per rispecchiare la struttura del capitalismo all’americana. Se già il wrestling misura il successo dei suoi atleti in base a quanto il loro personaggio riesce ad aderire ai valori fondamentali americani, quanto riesce ad incarnarli e rilanciarli, The Iron Claw stesso cerca di farsi incarnazione di quei valori. Così la famiglia protagonista è vista come un nucleo concorrenziale con l’ossessione del vincente (“Tutti possono diventare il mio figlio preferito, basta impegnarsi”) che ha introiettato il capitalismo così tanto da applicarlo agli affetti con lo scopo di una crescita perpetua. Anche a discapito del realismo dei conti. È l’impostazione più interessante possibile, ma anche questa nella seconda parte viene sacrificata per dare più spazio a un protagonista che non regge il peso del film.

E non si può dire di meglio del wrestling in sé, di cui il film vorrebbe essere una grande celebrazione, ritratto come uno sport a tutti gli effetti, attutito nella sua componente di finzione e celebrato nella sua grazia (la parte migliore). Se The Wrestler era terrorizzato dal wrestling e lo ritraeva come qualcosa di pericolosissimo e mortale (così affermandone la natura reale), The Iron Claw è in adorazione della grazia di questi corpi giganteschi che volano e si muovono in coreografie perfette ed è costretto a spiegare a parole il suo non essere finto. Così quando i fratelli non reggono la pressione fatichiamo a capire cosa di questa pratica così bella li massacri. Come fatichiamo a capire come mai alcuni trionfino e altri non riescano ad emergere in un film che quando decide di tirare le proprie fila è costretto ad andare nell’al di là e quindi nel kitsch.

Continua a leggere su BadTaste