The Walking Dead (terza stagione): la recensione

Il commento alla terza stagione dello show, diviso tra una prima parte fantastica e una seconda che ha fatto emergere i fantasmi del passato

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
Parlare di The Walking Dead significa anche scontrarsi prima o poi con la precisazione che i veri "walkers" del titolo non sono tanto gli zombie quanto i protagonisti della storia, costretti da un lato a camminare ancora e ancora, ormai privati anche solo della speranza di trovare un luogo sicuro da poter chiamare "casa", ma soprattutto morti. Una parola questa che non si riferisce tanto al perenne stato di allerta nel quale gli umani scampati all'apocalisse sopravvivono, ma a qualcosa di più intimo, segreto e, in definitiva, agghiacciante. È la morte dell'anima prima della carne, è la fine di qualunque sentimento o morale come guida delle azioni. Ogni essere umano della serie, lo sappiamo, porta in sé il germe della trasformazione che si manifesterà al momento della morte: ciò che questa terza stagione, con i suoi alti e bassi, ha voluto raccontarci, è dunque il modo in cui quest'anima nera che ognuno è condannato a portare sempre con sé inizi ad esercitare la sua opera di corruzione ancora prima di esalare l'ultimo respiro.

La prima metà della terza stagione di The Walking Dead ha quasi del miracoloso: otto puntate per spazzare via gli incubi televisivi dei primi due anni (soprattutto della disastrosa seconda stagione) e iniziare a sanare con precisione, intelligenza e coraggio tutti i difetti dello show. Il buonismo esagerato, i tormentati dialoghi sopra le righe, la lentezza della narrazione: lontani ricordi affogati nel sangue della testa spaccata a metà di Tomas, il carcerato colpito al cranio da Rick con un machete in "Sick". È solo l'inizio del rinnovamento strutturale cui si accompagna la "Ricktatorship": aumenta la quota zombie (mai così tanti), aumenta la crudezza, aumentano i momenti disturbanti (indimenticabile l'inquadratura finale di "Walk with me"). Ma è con "Killer Within" che viene posto il marchio definitivo sul new deal dello show: per la gestione della tensione narrativa, per il "coraggio" della scena, per il fantastico rinnovamento del personaggio di Carl e per la morte di uno dei protagonisti più odiati e peggio scritti di sempre, la scomparsa di Lori è il momento più alto raggiunto dallo show.

Ma si sa, dopo aver raggiunto la cima si può solo scendere, e purtroppo nella seconda parte della stagione la discesa è stata più ripida di quanto si pensasse. Quello di Lori non è l'unico fantasma a riapparire: ci sono quelli di una serie che sembrava essere riuscita ad andare avanti ma che improvvisamente si ritrova ad annaspare, probabilmente costretta da un eccessivo numero di episodi. Da puntate decisamente sbagliate, come "I Ain't a Judas", ad altre forse fillerose ma tutto sommato accettabili ("Clear"), si ritorna anche se non completamente ai vecchi ritmi e ad una direzione degli interpreti discutibile (Andrew Lincoln non è mai riuscito a dare spessore al suo personaggio e una scrittura che lo penalizza ulteriormente – come quella della famigerata "stuff and things scene" – non lo aiuta di certo).

E poi arriva il finale. "Welcome to the tombs" si è rivelata una conclusione assolutamente inadeguata, lenta, priva di quella tensione che caratterizzava "Beside the dying fire". La scomparsa di Andrea – molto apprezzata e che sa di punizione per l'unico personaggio che non era riuscito ad adeguarsi al nuovo corso ed era rimasto ancorato al modello Lori – non cancella comunque la delusione per l'inspiegabile anticlimax nella gestione del conflitto tra la prigione e Woodbury. Nessuno scontro con il Governatore, solo una rapida incursione per fare rifornimento di comparse da sacrificare agli zombie nella quarta stagione. E il Governatore? In queste ultime puntate l'equilibrio raggiunto da David Morissey con il suo personaggio si è perso quasi del tutto. Senza una evoluzione, o involuzione, che giustificasse bene i suoi atti (certo, l'uccisione della figlia, ma il passaggio doveva essere gestito meglio), il villain della serie si è lasciato andare a comportamenti eccessivi e stranianti (dallo strappare a morsi le dita a Merle a fare secchi quasi tutti i suoi accoliti in un raptus) che ne hanno appiattito la caratterizzazione.

Vediamola così e cerchiamo di concentrarci sulle poche belle riflessioni che il finale ci consegna: la radice del male, quel germe di morte di cui abbiamo parlato all'inizio, è forse troppo forte nel Governatore per poter essere raccontata in un modo che non sia diretto ed eccessivo nel mostrarci un personaggio "tutto nero" (spiegazione che sa un pò di giustificazione, ma tant'è). Va un pò meglio, senza esagerare comunque, con Carl e Glenn. Il loro percorso, scandito in entrambi i casi da un episodio traumatico, li ha portati inconsapevolmente ad una decostruzione della loro sfera emotiva e ad un maggiore distaccamento. Se questo per Glenn è mitigato da Maggie, Carl si trova nettamente più scoperto, trovandosi anche in un'età molto delicata e possiamo dire che il suo cambiamento sarà uno dei temi della prossima stagione. E Rick? Questa in fondo è la sua storia – Kirkman l'ha sempre sostenuto – ed è giusto concludere, come fa la stagione, su un'immagine positiva come quella della fine delle allucinazioni e dei rimorsi, sulla vittoria di un personaggio (raccontato a volte bene, a volte no) sulle sue paure, sulla speranza che la sua vittoria si possa trasformare, in una quarta stagione alla quale auguriamo tutto il bene possibile, in un vaccino che guarisca l'intera umanità.

Continua a leggere su BadTaste