The Walking Dead 3x09 – The Suicide King (Fratello), la recensione

The Walking Dead torna dopo la pausa della mid-season, ma sembra più che altro The Talking People...

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Eravamo rimasti, grossomodo un paio di mesi fa, a un mid-season finale che lasciava presagire grandi cose, degno coronamento di un blocco di episodi che avevano fatto dimenticare i tediosi orrori verbali di quella che poteva essere tranquillamente considerata come una delle serie tv più sopravvalutate di sempre.

Magari non si è trattato di un cliffhanger all'insegna dell'originalità assoluta – ne avevamo parlato anche in fase di review – ma di certo tutto faceva perno sulla funzionalità narrativa.

Con le abituali 24 ore di distanza dalla diretta statunitense, la nona puntata della terza stagione di The Walking Dead, intitolata The Suicide King (Fratello) è finalmente giunta a noi.
Il prologo è esaltante, adrenalinico. Merle e Daryl sono uno di fronte all'altro, obbligati dal Governatore a combattere nell'arena per la libertà: solo uno di loro dovrà continuare a respirare alla fine della lotta.

Ovvio che Merle, malgrado l'impeto iniziale stia tramando qualcosa, ovvio che Rick e i suoi accorrano in aiuto del loro amico balestra-munito. Una volta terminato il marasma, lo sceriffo si ritrova a dover scegliere se accogliere, di nuovo, un personaggio inaffidabile come Merle, responsabile di tanto dolore o se doverlo lasciare andar via insieme a Daryl, intenzionato a non abbandonare il sangue del proprio sangue.

Fino a qui, la tensione e l'azione dei primi otto appuntamenti paiono reggere, ma poi, dopo un brivido, un sussulto che coglie lo spettatore nel momento in cui l'azione si sposta all'interno del carcere, tutto torna pericolosamente sui binari del tedio che ci ha accompagnati a lungo durante la prima stagione e buona parte della seconda.

Certo, ora che Lori è passata a miglior vita (anche se...), non dobbiamo più sorbirci discorsi assurdi, campati per aria o incidenti stradali su strade completamente deserte, ma l'impressione generale è che questa puntata butti alle ortiche quanto fatto finora dalla terza stagione. Vi era, logicamente, la necessità di un episodio di raccordo, questo è chiaro, ma forse sul piano della tensione narrativa si poteva osare un po' di più.

Con un equilibrio – del gruppo, dei singoli, dei vari contesti (la prigione/Woodbury) – sempre più precario, i personaggi non trovano altro che tornare a incartarsi sui cari, vecchi discorsi interminabili. Come se lo spettro di Dale stesse aleggiando sulle teste di tutti.

Magari si tratta solo di un caso isolato all'interno di una season che pareva aver gettato alle spalle i difetti che hanno minato, in passato, la sua resa drammatica, ma tolti il prologo e l'epilogo, incisivo, all'insegna della drastica discesa nella paranoia di colui che dovrebbe essere il leader del gruppo, i minuti centrali dell'episodio potrebbero benissimo essere mandati avanti veloce col telecomando di MySky mentre si sta guardando la registrazione della diretta.

Perché The Walking Dead ha di nuovo, speriamo momentaneamente, lasciato spazio a The Talking People.

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