The Unforgivable, la recensione
La cosa davvero frustrante di The Unforgivable è che si affida alla bontà di cuore di chi guarda senza dare, dalla sua, nessuna lettura significativa
Quando un thriller mostra in modo evidente la sua struttura, rendendo palese che personaggi ed eventi sono lì dove sono proprio perché servono a portarci a quel finale, a quella risoluzione - il più delle volte melodrammatica - non c’è toppa narrativa/di messa in scena che regga: l’effetto “era prevedibile” è lì che ci attende al varco, esplodendo in una singola scena che vorrebbe commuovere e che, all’opposto, genera sbuffi e borbottii di ogni tipo.
Muovendosi qua e là tra tre gruppi di personaggi - la nuova famiglia della sorellina Katherine, i figli del poliziotto ucciso e la famiglia che abita nella casa dove vivevano le due sorelle - con Ruth sempre al centro, The Unforgivable gioca a fare il misterioso perdendosi invece in lunghi tempi morti salvo poi svegliarsi, giusto a metà film, con la voglia di far accadere tutto e arrivare al tanto agognato momento finale. Questa confusione non può che riflettersi su tutto il resto e in primis sul personaggio di Ruth, la quale non tanto per il suo costante silenzio (che anzi la rende più interessante), ma per l’approssimazione a cui viene ridotto, regge claudicante il peso di una trama di redenzione ma crolla di fronte alla prova di una lettura più profonda.
La prova del nove di questa gravosa mancanza è che, alla fine dei conti, Ruth affida totalmente il suo senso (il suo perdono, la sua stessa esistenza) a ciò che gli altri dicono di lei. Che sia positivo o negativo, il giudizio degli altri è l’unica cosa che la caratterizza e che la spinge ad agire. Senza non è assolutamente niente. La frase fatale in un momento fatale “non farlo, perderai tutto ciò che ami”, detta da Ruth a un altro personaggio, vorrebbe farci emozionare, riempire di significato tutto ciò che abbiamo visto: e invece, al contrario, non ci dice proprio nulla.
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