The Turning, la recensione

Le regole di base e insieme i più banali degli accorgimenti sono totalmente ignorati da The Turning, horror diretto da Floria Sigismondi

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Quanto sono importanti le attese nell’horror. Saper seminare gli indizi, senza fretta, per poi raccoglierli, farli combaciare. E quanto sono importanti le prime scene, quelle dove si costruisce il setting della storia. O, più semplicemente, quanto sono importanti i personaggi che hanno degli obiettivi da perseguire.

Queste regole di base, e insieme i più banali degli accorgimenti, sono totalmente ignorati (chissà se per pura ingenuità o per vera arroganza) da The Turning, horror diretto da Floria Sigismondi, regista di video musicali e serie tv (ha diretto alcune puntate di Daredevil, The Handmaid’s Tale, American Gods) che ha debuttato al cinema nel 2010 con The Runaways, e scritto da Chad e Carey Hayes, sceneggiatori degli strepitosi The Conjuring di James Wan che qui sembrano aver davvero perso la bussola.

Siamo infatti di fronte a un horror sconclusionato dalla prima all’ultima scena, che ha soprattutto il difetto di voler mostrarsi "tutto e subito", in un’inspiegabile ansia di mettere in campo i trope del genere senza saperli usare. Abbiamo tutti gli elementi per il più semplice degli horror: la grande casa borghese semi abbandonata, la ragazza giovane e volenterosa che deve entrare nella casa per qualche motivo, i bambini orfani, la vecchia governante rugosa, il labirinto, la leggenda misteriosa sulla ragazza che ha preceduto la protagonista… E tutto ciò, in sé, non è un dato negativo, anzi: sapere usare i più semplici degli elementi, variandoli, è ciò che in ultima battuta caratterizza un film di genere (la semantica rimane quasi sempre uguale, è la sintattica che varia).

La storia, tratta da un romanzo del 1898 di Henry James, è quella della giovane insegnante Kate (Mackenzie Davis) che viene assunta in una grande villa borghese per fare da tutrice alla piccola Flora (Brooklynn Prince), ma che presto dovrà fare i conti anche con il dispettoso fratello maggiore Miles (Finn Wolfhard al suo peggio) e i fantasmi del passato della famiglia. In realtà, oltre a questo, davvero poco si capisce rispetto a ciò di cui parla il film, che oltre ad avere una protagonista senza alcun obiettivo, sembra spostare continuamente il suo focus tematico (prima sul trauma infantile, poi sullo stalking, poi sulla manipolazione mentale) e pure stilistico (tra jumpscare da sbadiglio e horror psicologico chiaro solo all’autore) sbattendo in un vicolo cieco.

In una giustapposizione continua di scene che sembrano non portare da nessuna parte (e anzi, forse non lo fanno proprio), una tensione nulla (non parliamo nemmeno di spavento, o paura) e una storia così poco chiara che sembra non esserci proprio, The turning non appaga nemmeno l’occhio, stendendosi in una coltre grigina priva di contrasti. Con una base di partenza così disastrosa forse vogliamo pensare che poco poteva fare la regista per migliorarla, la quale infatti si limita al compitino ben eseguito ma privo di qualsiasi tipo di visione. Se allora c’è qualcosa che The turning può insegnare è che non si può fare un horror con una certa presunzione: quella di funzionare senza avere la pazienza di partire dalle basi.

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