The Tender Bar, la recensione

The Tender Bar di George Clooney è un coming-of-age svogliato e che senza alcun tirante narrativo gira a vuoto attorno ai suoi personaggi non sapendo cosa dire.

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The Tender Bar, la recensione

Esiste qualcosa di più frustrante in un film di una premessa interminabile che non si concretizza in niente? Forse la sensazione stessa che pure il suo autore non abbia interesse alcuno a raccontare la sua storia. Questa orribile consapevolezza pervade dall’inizio alla fine la visione di The Tender Bar di George Clooney: un coming-of-age svogliato e che senza alcun tirante narrativo gira a vuoto attorno ai suoi personaggi non sapendo cosa dire.

Tratto dalla biografia omonima dello scrittore e giornalista J. R. Moehringer, il film passa in rassegna la vita di J. R. (interpretato da un ingessato Tye Sheridan) da quando è bambino all’età adulta, o meglio fino al momento in cui “diventa uomo”: un momento in teoria cruciale (ciò che alla fine dà il senso ad un coming-of-age) e che qui, non a caso, ha la stessa carica emotiva di quando J. R. fa i compiti appoggiato al bancone del bar di zio Charlie. Ovvero nessuna.

La vita di J. R., o meglio quella raccontata da The Tender Bar, è una vita passata a cercare e ad odiare la voce del padre speaker radiofonico (detto appunto “La voce”) che lo ha abbandonato quando era piccolo, e che questo cerca di dimenticare tra le coccole della madre (Lily Rabe) e i consigli “da vero uomo” del sopracitato zio Charlie (Ben Affleck, forse l’unico che riesce a dare una certa profondità al suo personaggio), un lettore accanito che nel suo Dickens Bar di Long Island fa crescere in J. R. l’aspirazione a diventare uno scrittore.

Il fatto che da The Tender Bar non si percepisca alcuna tensione narrativa, ovvero nessuna attrazione verso un obiettivo o una risoluzione, non è di per sé qualcosa di sbagliato: il senso di un film può risiedere anche nel suo semplice girovagare, può stare nelle scene e non nel percorso. The Tender Bar tuttavia si frega da solo nel momento in cui promette di essere classico e pulito, di voler arrivare a qualcosa di semplice e chiaro (J. R. che diventa uomo compiendo delle scelte) costruendosi come il più normale dei film di formazione (senza alcuna velleità registica particolare o alcuna trovata narrativa che lo spinga verso terreni arthouse, con pure una voce off del narratore a rendere tutto leggibile e confortevole) salvo poi non rispettare la più semplice delle regole narrative classiche: ovvero costruire il film a partire dal problema del protagonista.

Il percorso di J. R. viene invece presentato come conflittuale (il padre alcolizzato e cattivo, la ragazza che lo lascia più volte, la carriera che non va come dovrebbe) ma non è mai conflittuale dentro al personaggio. J. R. non rischia mai nulla perché non vuole nulla. Le cose gli accadono e lui reagisce. Per questo motivo, una volta che si arriva alla fine, The Tender Bar sembra non avere detto nulla se non che un giorno si diventa grandi. Né il passato di J. R. né il suo presente riescono a influenzarlo (sebbene la storia dovrebbe essere questa): e così non ci sono alti e bassi, scene catartiche: no, nemmeno la resa dei conti col padre. Tutto giace sulla stessa linea retta.

La sceneggiatura di William Monahan e la regia di Clooney non riescono a sopperire a questa mancanza, lavorando entrambi verso l’esito meno faticoso possibile. Clooney, che negli ultimi film sembra avere perso la bussola (il tentativo di commedia nera alla Coen Suburbicon, lo sci-fi filosofeggiante The Midnight Sky), conferma con The Tender Bar non solo che senza una buona sceneggiatura è totalmente perso, ma che, facendo dipendere la sua regia in modo mimetico dal tipo di storia che ha tra le mani, non è forse ancora pienamente convinto dei suoi stessi mezzi.

Siete d’accordo con la nostra recensione di The Tender Bar? Scrivetelo nei commenti!

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