The Son, la recensione
La recensione di The Son, il nuovo film di Florian Zeller con Hugh Jackman presentato in concorso al Festival di Venezia
La nostra recensione di The Son di Florian Zeller, in concorso al Festival del Cinema di Venezia
È bene chiarire subito come The Son sia la trasposizione di una piece teatrale, parte peraltro di un trittico che comprende il già citato The Father e The Mother. A dispetto del chiaro intento di creare un fil rouge fra le tre opere, la storia narrata in The Son non ha legame alcuno con quanto visto nel precedente lavoro di Zeller; in parallelo al cambio di personaggi e ambientazione, anche il tono del racconto vira drasticamente verso lidi anni luce lontani da quelli esplorati con The Father.
Kamikaze
La storia di The Son è semplice quanto il suo titolo: il ricco Peter (Hugh Jackman) vive a New York con la giovane compagna Beth (Vanessa Kirby) e il figlio neonato Theo. No, non è lui il son del titolo, bensì Nicholas (Zen McGrath), nato dal primo matrimonio di Peter con Kate (Laura Dern). L’adolescente irrompe nella nuova vita di Peter trasferendosi da lui, e Zeller non fa nulla per nascondere allo spettatore di trovarsi dinnanzi a una bomba a orologeria antropomorfa.
Nicholas è un coacervo di problemi, piccoli e grandi traumi, che finisce inevitabilmente per ricondurre all’abbandono - da parte di Peter - del tetto coniugale. Lo sfregio al precedente quadro idilliaco ci viene costantemente ribadito con flashback luminosi e ricolmi di tepore familiare, beffardo contraltare al mesto grigiore di un presente in cui i personaggi non fanno che ripetersi l’un l’altro, sempre meno convinti, che “si sistemerà tutto”.
Vecchi schemi
Molto ci sarebbe da dire sulla scelta di spostare l’ambientazione dall’Inghilterra agli Stati Uniti, terra delle opportunità e delle armi. Nella sicurezza altoborghese del proprio appartamento chic-industrial, con una porta di casa che sembra - non a caso - quella di una cella frigorifera, Peter non si rende immediatamente conto di cosa stia accadendo a Nicholas. Disturbi adolescenziali, si ripete, e fa quel che può per essere il miglior padre possibile. Fuori tempo massimo, ma quel che conta agli occhi del protagonista è esserci qui e ora.
Inevitabile, tuttavia, che egli finisca schiavo di un meccanismo di reiterazione proprio di quei comportamenti che aveva tentato di evitare; ricalca, nei suoi rimproveri al figlio, gli stessi schemi dei rimbrotti di suo padre (Anthony Hopkins) durante la sua infanzia e adolescenza. Pur differendo nell’essenza e nell’indole, Peter arriva ad assomigliare terribilmente all’odiato genitore assente in termini di lessico e pressione inferta al figlio.
Tutto troppo chiaro
In aperto contrasto alla disorientante imprevedibilità di The Father, tutto in The Son è chiaro e cristallino; la conclusione della vicenda è intuibile (almeno) da metà film, e a Zeller non interessa sorprendere lo spettatore con colpi di scena a effetto. L’intento è, semmai, sottoporre il pubblico a una sollecitazione emotiva costante ed enfatica, portandolo a simpatizzare di volta in volta con Peter, Beth, Kate.
E Nicholas? Si può davvero empatizzare con the son? Zeller non preclude questa possibilità, ma ci tiene a mantenere un distacco tra noi e il ragazzo, creando così un collante emotivo con il vero protagonista, Peter, e con la sua incapacità di comprendere appieno il dramma del figlio. In questo senso, The Son ricalca le ambizioni del suo predecessore The Father, in cui però l’immedesimazione era veicolata da una messinscena mutevole di potenza incomparabile.
Il peso del vincolo
C’è però una vitalità ferina che, di tanto in tanto, emerge rispetto alla superficie di dramma familiare; si pensi alla magnifica scena di confronto tra Peter e Nicholas, un fuoco incrociato di accuse secche e disperate. Nello sfogo dirompente del padre, nella sua rivendicazione ad avere una vita ”altra” libera e indipendente rispetto al mero ruolo genitoriale, c’è la vera linfa vitale del film; e allora capiamo come, forse, gli indizi sul malessere di Nicholas siano stati in parte ignorati scientemente, alla ricerca di un’autonomia individuale cancellata dall’esistenza della prole.
Non è tutto: nei fallimenti - scolastici, sociali, emotivi - del figlio, Peter ravvisa l’innominabile spettro dei propri. L’ombra della pateticità, evocata dal terribile padre interpretato da Hopkins, perseguita Peter e lo spinge a tentare di trasformare il figlio, lottando contro maree in moto da tempo. Ma l’argilla del cuore è già secca, e la pretesa di Peter è vana; non è più compito dei genitori occuparsi di certe crepe dell’animo, solo parzialmente manifestate attraverso le ferite del corpo. È proprio la pretesa di poter salvare Nicholas a decretare, in barba a tutti i timori pregressi, il definitivo fallimento di Peter. Un fallimento tremendo, proprio perché determinato da una scelta dionisiaca, guidata più dal cuore che dal ragionamento.
Tradizione del dolore
Il martellante sforzo drammatico atto a strappare lacrime non va però sempre a segno, ma anzi avvolge The Son di una certa artificiosità. I meccanismi della trama sono chiari, l’abbiamo già detto; per tutta la durata del film, la sensazione di ineluttabilità di un determinato destino non abbandona mai lo spettatore. Quel che manca, duole dirlo, è la messa a fuoco decisa e selettiva sul rapporto Peter-Nicholas. L’anelito del film resta sospeso a metà, dissolto tra i rivoli di un racconto troppo dispersivo; sterili gli intermezzi in ufficio, atti a ribadire qualcosa - lo spettro della mancata realizzazione lavorativa per Nicholas - già ben chiaro nei dialoghi domestici.
Potremmo dire che sono le scelte più cinematografiche di Zeller, quelle che lo distaccano dall’impianto meramente teatrale dell’opera, a risultare deboli. Non basta la gigantesca performance di Jackman a garantire a The Son la targa di capolavoro a cui forse aspirava; incapace di spiccare il volo verso i nembi del memorabile, il melodramma di Zeller plana dolcemente sulle verdi pianure del lacrimevole. Lo fa anche bene, almeno fino all’insopportabile saccarosio di un finale tediosamente convenzionale; impossibile però nascondere la testa nella sabbia e cancellare le alte aspettative che l’esordio di Zeller aveva posto su The Son. E forse, in questo, finiamo per assomigliare proprio ai padri dipinti nel film, colmi di speranza e condannati, sin da subito, alla delusione.