The Social Dilemma rivela problemi ma non propone soluzioni

Il documentario di Jeff Orlowski sui pericoli dei social è una chiamata alle armi, ma gli mancano le idee

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Non c’è nulla che illustri meglio la contraddizione al centro di The Social Dilemma di questa considerazione: poco dopo essere stato rilasciato su Netflix, il nuovo lavoro di Jeff Orlowski sull’impatto che i social stanno avendo sul tessuto stesso della nostra società è diventato un caso sui social, che si sono riempiti di gente che si dichiarava orripilata da quanto scoperto in quest’ora e venti di documentario la cui classificazione PG-13 è giustificata dalla presenza di “dystopian speculation”.

It’s not a bug, it’s a feature

The Social Dilemma parla, com’è chiaro fin dal titolo, di social media, e il suo messaggio di fondo è ottimamente riassunto in un’arcinota citazione attribuita allo statistico americano Edward Tufte: «Ci sono solo due industrie che chiamano i loro clienti “utenti”: quella delle droghe illegali e quella del software» (citazione che in inglese funziona meglio perché “user” è un termine che ha la doppia accezione di “utente” e “consumatore di sostanze”). È una raccolta di opinioni, pareri e testimonianze in prima persona di gente che ha contribuito a creare l’attuale ecosistema digitale e che approfitta della piattaforma offerta da Orlowski per mettere in guardia il mondo intero contro quella che viene universalmente definita “una minaccia esistenziale per la specie umana”.

Chiunque abbia seguito le vicende di cui parla il documentario, o anche solo che abbia usato un social in vita sua, sa, o dovrebbe già sapere, tutto quello che viene raccontato in The Social Dilemma, che ripropone – spesso in maniera martellante e ripetitiva, per cementare il concetto nella testa di chi guarda – una serie di idee semplici e sintetiche sul funzionamento dei social (prima fra tutte quella secondo cui “se non stai pagando per un prodotto sei tu il prodotto”), le fa esprimere a gente che le ha usate per costruirsi una carriera, e soprattutto, ed è il vero elemento vincente del documentario, le incornicia secondo un’altra frase fatta ai confini del meme diffusa nel mondo tech: it’s not a bug, it’s a feature.

Il like del tweet ha un pss nella mmm

Tutto quello che succede nella nostra testa quando scorriamo il feed di Facebook o cerchiamo informazioni su Google o mettiamo like ai post della nostra bolla su Instagram è cosa nota, misurabile e quantificabile, e ogni piattaforma è costruita per estrarre il massimo valore possibile dal nostro comportamento online – ancora una volta, niente di nuovo per chi ha letto anche solo due news a riguardo negli ultimi anni, ma riassunto in maniera efficace, per quanto fin troppo retorica e forzosamente a effetto, da persone che in passato hanno usato queste stesse conoscenze per migliorare il meccanismo di sfruttamento della nostra attenzione, o engagement se preferite. Più che un lavoro di inchiesta, The Social Dilemma assomiglia a un’immensa riunione di tech-isti (per nulla) anonimi, che si riuniscono in cerchio per condividere le loro storie dell’orrore e la colpa di aver dato vita a una bestia che, di nuovo come dicono loro stessi, nessuno sa più bene come funzioni.

C’è un secondo strato di significato sovrapposto a quelli che sono di fatto una serie di TED Talk che parlano della distopia verso la quale ci stiamo dirigendo: un tentativo di drammatizzazione e concretizzazione di istanze che possono sembrare astratte o troppo globali per catturare l’interesse di una singola persona, nella forma di… qualcosa che non si può descrivere se non come “Inside Out con i social”. È un cortometraggio di finzione, che si interseca con le interviste e le mette in scena raccontando le vicende di una famiglia i cui membri sono tutti in qualche misura toccati in prima persona dall’abuso di social; c’è la figlia preadolescente fissata con i like ai suoi selfie, il figlio un po’ timido che finisce in un circuito di complottisti e si radicalizza fino a venire arrestato, la figlia maggiore preoccupata dall’abuso di smartphone del resto della famiglia, e soprattutto ci sono, lo ripetiamo, l’equivalente social delle emozioni di Inside Out, un’AI in tre parti (tutte e tre interpretate da Vincent Kartheiser) che controlla l’engagement e i clic e le revenue e i post e i like e i tag e tutte quelle altre parole che assemblate compongono il mosaico delle nostre interazioni online e del modo in cui gli algoritmi dietro alle piattaforme che usiamo influenzano i nostri percorsi di pensiero e premiamo i nostri centri del piacere spingendoci a ricercare una nuova dose di approvazione virtuale.

Il dilemma di The Social Dilemma

L’intento di The Social Dilemma – mettere in guardia contro una serie di pratiche deumanizzanti per l’utenza e che saranno responsabili in ultima analisi del collasso della società come la conosciamo – è lodevole, per quanto un po’ fine a se stesso nel momento in cui non propone soluzioni sistemiche (al di là di un generico “bisognerebbe controllare e regolare le grosse corporazioni”) ma solo buone pratiche di disintossicazione personale (la più importante di tutte: disattivate le notifiche) che possono portare a un reale cambiamento solo se adottate in massa, e che soprattutto non tengono conto del contesto più ampio (socioeconomico, non solo digitale) nel quale esistono i social e del loro inestricabile legame con il sistema produttivo e non solo con la vita privata – lasciateci semplificare, ma è facile consigliare di cancellare un account Facebook, più difficile spiegare a chi senza quell’account non può più lavorare come reinventarsi e reinserirsi nel sistema produttivo, quello stesso sistema peraltro che viene criticato dal documentario stesso e indicato come una delle cause primarie della situazione in cui ci troviamo.

Il vero dilemma, però, di The Social Dilemma sta altrove, e cioè nella piattaforma su cui è stato rilasciato: non c’è dubbio che l’impatto politico di Netflix (o di Prime Video, o di Disney+, o di Sky) sia inferiore a quello di un social sul quale si può diffondere disinformazione e influenzare il modo di pensare di intere fasce di popolazione. Ma la profilazione, la misurazione delle abitudini, e soprattutto la creazione, usando questi dati, di un’offerta tagliata su misura il cui scopo principale è quello di trattenere l’utente il più a lungo possibile su una piattaforma (perché ogni secondo passato lì è un secondo rubato alla concorrenza), sono tutte tecniche che Netflix usa tanto quanto Facebook, e che nascono dalla stessa idea dell’utenza, per quanto pagante, come prodotto; per quanto possano sembrare più innocui, i “consigliati” di Netflix esistono nello stesso spazio ideale abitato dalle pagine suggerite di Facebook e dai video consigliati su YouTube.

E d’altra parte, e questa è una contraddizione che più che colpa di The Social Dilemma lo è dell’intera struttura attuale di Internet, esiste un modo migliore per diffondere una chiamata alle armi al maggior numero di persone possibile di farlo tramite una qualche forma di social network o di piattaforma digitale? La domanda è retorica, la risposta comunque è no ed è il motivo per cui The Social Dilemma potrebbe risultare un’operazione un po’ ipocrita, una sorta di “data-usage-washing” che serve a puntare il dito sugli altri e a distrarre dai problemi, chiamiamoli così, domestici (in alternativa la si può vedere come una scelta coraggiosa, una dichiarazione del tipo “non abbiamo nulla da nascondere, noi”). Se di ipocrisia si tratta, comunque, la colpa non è certo del povero Orlowski, che anzi si è dannato per girare quello che è un vero e proprio spiegone e sintesi efficace di questioni sulle quali si dibatte più o meno sottotraccia da anni. Non sarà una soluzione, ma è un inizio.

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