The Seed of the Sacred Fig, la recensione | Cannes 77

Con The Seed of the Sacred Fig Muhammad Rasoulof chiude i conti col regime iraniano e dimostra tutta la forza politica dei grandi racconti.

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La recensione di The Seed of the Sacred Fig, il film di Mohammad Rasoulof presentato al Festival di Cannes.

Ultimamente abbiamo parlato di un grande regista che fa cinema politico tramite la sperimentazione, Miguel Gomes. Ma la verità è che la differenza, quella (poca?) che possono fare informando e indignando, i film la fanno quando raccontano. Per una storia lunga e complicata, che ha a che fare con la demonizzazione di Hollywood e del "cinema commerciale", la narrazione classica (quella che intrattiene, quella con gli eroi e i cattivi) è spesso tacciata di non poter costruire discorsi politici, di semplificare, di cadere in dicotomie. Lo dicevano di La battaglia di Algeri (1966) e Z-l'orgia del potere (1969). Qualcuno lo dirà anche, statene certi, di The Seed of the Sacred Fig: che è retorico, che parla troppo alla pancia e poco alla testa eccetera. E invece se c'è oggi un film capace di raccontare l'Iran al mondo è proprio questo: un grande film classico, che non ha tempo di riflettere sugli archetipi narrativi, perché è troppo impegnato a metterci dentro la realtà.

L'ultima volta che l'abbiamo visto nel cinema di finzione, quando vinceva l'Orso d'oro col bellissimo There Is No Evil (2021) Mohammad Rasoulof scomponeva in quattro ritratti umani il rapporto degli Iraniani col regime teocratico che li governa. I primi due, i più riusciti, fanno chiaramente anche da base per The Seed: uno era un padre di famiglia apparentemente normalissimo, che amava moglie e figlia ma che al momento buono (quasi anticipando La zona d'interesse) non batteva ciglio nel premere il bottone che impiccava una fila di condannati a morte. L'altro era un soldatino impaurito che, messo davanti allo stesso compito, trovava chissà come la forza di reagire.

Il colpo di mano di The Seed è immaginare che queste due figure, la Banalità del Male e il giovane ribelle, siano padre e figlio. O meglio padre e figliE, donne, che nel film precedente rimanevano un po' in secondo piano rispetto al meccanismo disumanizzante cui erano sottoposti kubrickianamente i soldati (Kubrick segnatevelo perché ci servirà più avanti). Da una parte abbiamo quindi il Padre (Missagh Zareh), un ufficiale recentemente promosso a giudice che abbandona presto gli scrupoli di umanità che gli restavano. Dall'altra le figlie (Mahsa Rostami e Satareh Maleki) il "seme del fico sacro" del titolo, ribelli e politicizzate. In mezzo, nell'interpretazione che incendia l'intero film, una madre-mediatrice lacerata dal dubbio (Soheila Golestani).

Siccome il padre ora è una figura importante, e quindi potenzialmente un bersaglio politico, la madre sottopone le figlie a misure di assoluta ristrettezza. Devono essere ineccepibili nel vestire, stare attente a come usano i social e chi frequentano, e ovviamente non avvicinarsi ai manifestanti che la polizia sta randellando a decine in tutta Teheran. La prima metà di The Seed è un saggio di claustrofobia in cui l'oggetto chiave (prima di diventare la pistola) è lo smartphone delle ragazze: strumento di comunicazione, di informazione, in definitiva di ribellione. Unico appiglio per due teste pensanti alla realtà sanguinosa di ciò che il regime sta facendo a ragazze come loro, e che la televisione e una madre indottrinata liquidano come "propaganda del nemico", mentre la casa, in un'evidente allegoria del paese, diventa una trappola dell'identità personale.

È quando poi l'azione si sposta all'esterno, in una casa di campagna vicino alle rovine di una cittadella abbandonata, che Rasoulof si supera, liberando quella claustrofobia in una sfida catartica fra oppressori e oppressi che fa capire per l'ennesima volta perché sia dovuto emigrare dal suo paese. Parlavamo di archetipi narrativi e di Kubrick: la seconda metà di The Seed poggia evidentemente sugli schemi della fiaba (Barbablù, il padre-orco) e lo fa con la mediazione nientemeno che di Shining (1980), che a tratti cita spudoratamente (il padre rinchiuso nella cella-cantina, l'inseguimento finale nel "labirinto" della cittadella, un cumulo di sabbia al posto di uno di neve) e rispetto al quale si pone come l'esperimento rispetto alla formula chimica:

Kubrick fornisce il grande archetipo fiabesco (il conflitto edipico, la casa prigione, la madre-alleata); Rasoulof lo riempie del suo presente storico e ne dimostra l'utilità universale. Il lento scivolare del padre nella follia paranoica diventa il lento acquiescere dell'uomo di regime alla normalità dell'uccidere. La fuga di madre e figlio diventa la ribellione delle figlie di un paese-Saturno che vuole divorarle e reprimerle. Eccolo, il potere di un grande racconto.

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