The Romanoffs 1x08 "The One That Holds Everything": la recensione

Le nostre impressioni sull'ultimo episodio di The Romanoffs

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Il bizzarro esperimento antologico di Matthew Weiner si conclude così, con un episodio a scatole cinesi. Si tratta di un thriller, anche se la natura completa della storia ci verrà svelata solo alla fine. The One That Holds Everything riprende da The Romanoffs, oltre all'immancabile e pretestuoso riferimento alla famiglia reale russa, anche il solito problema della discendenza, le aspettative disattese, il crollo dei valori della famiglia. La prima parte, quella in cui sono aperte l'una dentro l'altra le parentesi narrative, è frustrante, ma la ricompensa vale in definitiva l'attesa.

Ci troviamo alla stazione di Parigi. Un viaggiatore si reca a prendere il treno, incrocia per caso i protagonisti del primo episodio della serie, e immaginiamo subito che l'episodio sarà un grande contenitore di collegamenti con tutte le altre puntate. Non sarà così. Ci sarà almeno un altro riferimento ad un'altra puntata, ma il punto qui è un altro. Sul treno il viaggiatore incontra un'altra persona e, come in un thriller di Hitchcock, l'incontro apre la porta ad un racconto non così innocuo come potrebbe sembrare. Subentra allora un nuovo protagonista, con la sua vita da adulto e poi ancora da bambino. Un racconto frustrante, anche sfilacciato ad un certo punto, ma, come abbiamo detto, la ricompensa arriverà.

I pochi collegamenti con altri episodi ci ricordano che questo è, nonostante tutto, un universo coerente in se stesso, e che tutte le storie possono intrecciarsi l'una nell'altra. Più interessanti però saranno i collegamenti a livello tematico. La solita discendenza dai Romanoff – vera o presunta, non importa – apre le porte ad un bagaglio di considerazioni su ciò che i personaggi fanno di quel retaggio. Forse il peso di un nome simile, che carica ogni discendente di un peso storico troppo forte, è troppo arduo da sopportare. In ogni caso, in base a quello che abbiamo visto in otto puntate, nessuno di essi è immune dal condizionamento e dall'infelicità.

In qualche modo, anche questa puntata risente di quel tema. C'è un personaggio che si chiama Simon (Hugh Skinner) che vede andare in frantumi non solo la propria famiglia, ma anche la propria identità personale. Senza entrare nel dettaglio, per lui inizia un lunghissimo percorso di accettazione di sé, lo sforzo di riprendere in mano la propria vita. E, se un collegamento con Mad Men si può fare, questo risiede proprio nel peso delle responsabilità, in ciò che un semplice cognome, o uno status sociale, richiedono in termini di libertà personale. Queste sono storie che hanno raccontato di uomini e donne provenienti da ambienti molto diversi che si innamorano, di tradimenti stupidi, di paranoie incontrollabili, di pregiudizi difficili da ignorare.

Come i grandi pubblicitari degli anni '60, incrollabili e tutti d'un pezzo, ognuno di questi Romanoff contemporanei è chiamato ad essere migliore di ciò che è. E, semplicemente, non può esserlo. La critica sociale di Weiner non assume mai la portata universale che aveva in Mad Men. Rimane sempre nel piccolo e nel particolare, a volte fin troppo superficiale, a volte inutile. Questo episodio però ha il merito di ricondurre tutto ad una giustificazione finale che permette di rileggere quanto abbiamo visto nell'ora e venti precedente.

Non è il migliore degli episodi – primato che spetta senza dubbio a End of the Line – ma si colloca comunque tra i più riusciti, anche nella sua capacità di raccontare un dramma umano sincero.

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