The Romanoffs 1x03 "The House of Special Purpose": la recensione

Le nostre impressioni sul terzo episodio stagionale di The Romanoffs

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
Il terzo episodio del particolare esperimento televisivo di Matthew Weiner noto come The Romanoffs è il più interessante e riuscito fino ad ora. Se non altro recupera una serie di ispirazioni chiare, delle quali non è però all'altezza, e una storia che ha una premessa interessante. La presenza nel cast di Christina Hendricks e di Isabelle Huppert conferisce maggiore profondità ad un intreccio confuso, che funziona più per associazione d'idee che per cause e conseguenze riconoscibili.

La protagonista della storia è Olivia, che arriva sul set di una miniserie per interpretare il ruolo di Alexandra Romanoff. La accolgono una troupe e una crew distratte e per nulla interessate alle richieste, anche sensate, della professionista. In particolare hanno un impatto su di lei la scontrosa regista Jacqueline e l'interprete di Rasputin, Samuel (Jack Huston). Dopo un primo approccio deludente al lavoro, per Olivia le esperienze da dimenticare si moltiplicano, così come i piani della realtà. Subentra un elemento surreale, quando non orrorifico, e diventa difficile distinguere tra sogno e realtà.

C'è innanzitutto una componente metanarrativa non da poco nell'episodio, che in chiusura rimette addirittura in scena la sequenza dell'uccisione della famiglia reale della sigla. In una serie che non riguarda per nulla i Romanoff, vediamo la realizzazione di una miniserie proprio su quei personaggi. Si tratta in questo caso di un classico period drama, senza velleità particolari (anche perché nella finzione sarebbe impossibile spiegare la libertà creativa concessa a Weiner!). D'altra parte si tratta di un riferimento che non aggiunge molto ai temi della puntata, se non dal punto di vista dell'identificazione della storia con l'oggetto della propria narrazione, o dell'attore rispetto all'interpretazione.

Il resto è polanskiano nel senso più classico e già visto del termine. C'è il set, il gioco delle parti, i ruoli che si confondono, il rapporto tra carnefice e vittima che funziona a fasi alterne e dipende dal contesto. Ma la visione di tutto questo è confusa e mai ficcante nelle emozioni che vorrebbe trasmettere, come ansia o paranoia. C'è la perdita dell'identità e la spersonalizzazione che genera caos. Una perdita dell'identità che qui sembra dipendere anche dalla mancanza di professionalità e da un clima avvelenato – c'è anche un momento di abuso fisico che viene minimizzato. Nulla che anche in tempi recenti non sia già stato ripreso (ci vengono in mente Olivier Assayas o Sion Sono) e con risultati molto migliori.

Continua a leggere su BadTaste