The Report, la recensione | Roma 2019

Parlatissimo e tecnicissimo The Report è un film per appassionati di burocrazia governativa statunitense

Critico e giornalista cinematografico


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THE REPORT, LA RECENSIONE DEL FILM DI SCOTT Z. BURNS

Quando Steven Soderbergh gira film indignati e socialmente responsabili è a Scott Z. Burns che si rivolge (in linea di massima) per una sceneggiatura. Ora Burns lo script lo mette in scena da sé, con il suo primo lungometraggio per il cinema. Non stupisce quindi che in tutto e per tutto copi le soluzioni di messa in scena di Soderbergh e si mimetizzi nel suo cinema, confondendosi nella camera a mano usata a forza nelle scene di dialogo, nella color correction con cui identificare tempi e contesti diversi del racconto mescolando colori caldi e freddi e nell’uso di ampi ambienti ripresi con profondità di campo e dovizia di tetti. Insomma è il mondo di Soderbergh ma diretto da un altro. Già non c’è da eccitarsi.

La storia è quella dell’uomo che ha svelato le malefatte della CIA indagando per anni e anni negli uffici della CIA stessa, fino a perdere parte della sua vita e della sua carriera dietro un compito osteggiato da tutti ma sempre più necessario al crescere delle scoperte. È la persona grazie alla quale sappiamo delle torture, del waterboarding, di tutto ciò che è stato fatto durante l’amministrazione Bush/Cheney per avere mano libera in guerra.
Parlatissimo e tecnicissimo, The Report fa uno sforzo molto blando per creare dello spettacolo ed è una parabola ottima per nerd delle politiche governative americane e appassionati di burocrazia.

Purtroppo la “misterizzazione” dei fatti reali, cioè la loro trasformazione in una serie di misteri romanzati, di quelli che vengono svelati in maniera inutilmente graduale (“Guardate nelle email” dice in maniera fastidiosamente sibillina la gola profonda della situazione), è pessima e risulta in uno standard di noia molto alto. Alto anche se si stesse parlando effettivamente dei noiosissimi film d’impegno di Soderbergh. Addirittura anche il più classico dei documenti centrali all’incastro della vicenda che va recuperato a tutti i costi è inseguito così goffamente da risultare in una conquista noiosa.

Ad Adam Driver viene chiesto di confondersi con lo sfondo, di sparire tra carte e computer e riemergere solo quando c’è da indignarsi, di diventare gradualmente un cittadino pieno di desiderio di rivalsa da che ci è presentato come un promettente burocrate governativo, progressivamente sempre più alienato da un compito impossibile, immenso, improbo, a cui tutti rinunciano. Un essere umano che controlla migliaia di email come fosse un computer.

Alla fine di tutta questa indignazione il film stesso ha quasi paura e dopo aver gridato e abbaiato, dopo aver stilato un elenco dei punti e delle infrazioni commesse, dopo aver evidenziato l’orrore del mancato rispetto delle più basilari regole democratiche, chiude comunque all’insegna del patriottismo.

La statura del sistema, la sua capacità di correggersi ma soprattutto l’integerrima statura degli americani hanno vinto un’altra volta.

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