The Recruit (stagione 1), la recensione

The Recruit ha una trama simile a quella di tanti thriller già visti, diventa però irresistibile nelle situazioni che riesce a creare

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La recensione della prima stagione della serie The Recruit, disponibile dal 16 dicembre su Netflix

Ciò che fa la fortuna di The Recruit è il coraggio di restare fedele a se stesso anche quando sarebbe stato più semplice uniformarsi ai normali action. Così, anche quando si perde in intrecci confusi e poco appassionanti, la prospettiva con cui il protagonista viene coinvolto nelle vicende regala otto puntate di grande divertimento. 

La trama di The Recruit

Noah Centineo presta il suo volto, volutamente poco adatto all’action, a Owen Hendricks un giovane avvocato. Alla prima esperienza lavorativa si è buttato nell’intricato mondo della CIA. Alla ricerca di stimoli ha scelto lo spionaggio internazionale senza sapere in che cosa consistesse veramente il lavoro. Se ne pente subito.

Il mondo delle spie raccontato nella serie

The Recruit, pur non assomigliando minimamente come trama e forma, prende un po di linguaggio narrativo da The Kingsman e da John Wick. Del primo imita infatti la comicità situazionale di un pesce fuor d’acqua che deve stare al passo di un mondo che corre spedito. Dal secondo viene la costruzione di una professione segreta pieno di persone che lavorano lì dentro. Alcune cercano solo di tirare a campare aspettando le ferie o la pensione. Si parte così dall’immaginario cinematografico delle spie e lo si distrugge.

La CIA di The Recruit ha livelli assurdi di paranoia e segretezza. I colleghi addirittura scappano per non sentire dei segreti che, una volta ascoltati, li coinvolgerebbero automaticamente in vicende internazionali pericolosissime. Però tutto il resto funziona come in un ufficio normale. I computer sono vecchi di dieci anni, ci sono i lavoratori esauriti e i capi troppo severi che minacciano licenziamenti a valanga, non mancano ovviamente il nonnismo e le tradizioni aziendali come la giornata della famiglia con i bambini al lavoro insieme ai genitori. 

In questo mondo pericolosissimo l’inserimento lavorativo non esiste. Buttati a capofitto nelle missioni i dipendenti imparano il mestiere facendolo. Le prime scartoffie affidate a Owen svelano un’ex risorsa dell’agenzia, imprigionata, che minaccia di svelare scottanti segreti. Si imbarca nella missione sperando di risolverla in poco. Verrà torturato, ricercato, intrappolato in una rete di interessi e di spionaggio che lo trasformerà da semplice avvocato in un improvvisato gente segreto. 

Un protagonista convincente

I primi due episodi di The Recruit diretti da Doug Liman sono i meglio equilibrati tra azione e commedia thriller. Dopo questo inizio scoppiettante tutta la struttura appare un po’ trascinata nelle puntate centrali che accumulano fin troppe sottotrame. La serie funziona però nelle situazioni che riesce a creare, così forti che fanno sembrare tutta la vicenda di spionaggio solo un pretesto per creare nuove prove. I personaggi non cambiano quando scoprono i segreti o si addentrano nei lato oscuri dell’agenzia, lo fanno quando provano a fare qualcosa che non hanno mai fatto prima. 

Così Noah Centineo è perfetto per il suo Owen, trascina sulle sue spalle The Recruit portandola a una vittoria netta nonostante i suoi difetti di scrittura. Il suo è un personaggio in cui è divertentissimo identificarsi. Il sogno ad occhi aperti di chiunque abbia mai voluto essere James Bond per un giorno. Si trova così imbarazzato a letto con donne bellissime che vogliono sedurlo (ma deve resistergli per etica lavorativa). Cerca di sopravvivere come farebbe una persona qualsiasi, rivelando segreti al primo dolore della tortura, e fingendo di sapere cosa sta facendo. Commette errori grossolani, pensa alle dimissioni, cerca di recuperare le ore di sonno perse quando può, sbaglia il dress code per le missioni. Tutto questo rende spassosissima una serie che altrimenti si sarebbe persa nei molti thriller simili.

Si finisce così nella rocambolesca chiusura di stagione a volerne ancora di più. Magari in un proseguimento dell’avventura ancora meno ingessata nei cliché, sempre più libera e anticonvenzionale proprio come il suo protagonista. 

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