The Post, la recensione

Nella storia del Washington Post e dei Pentagon Papers Steven Spielberg trova un'altra storia: quella di una donna in un mondo di uomini

Critico e giornalista cinematografico


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C’è un fascino quasi esotico nelle immagini della pressa che manda in stampa i giornali di carta in The Post. Il momento in cui le notizie vengono messe finalmente sulla carta dopo tanto discutere è fatto di dettagli di viti, macchinari oliati, vasche di inchiostro e una grande massa di carta spostata, di caratteri mobili composti a mano e finalmente impressi. I film sul giornalismo sono stati tantissimi ma solo oggi ha un senso tale concentrarsi sul momento della stampa propriamente detto. Perché Spielberg mostra il giornale di carta prendere forma ma in realtà intende il cinema in pellicola. È quel mondo lì in cui i contenuti erano su un supporto analogico finito, costoso, limitato e quindi prezioso. In un film che parla d’altro, di libertà, di coraggio e soprattutto di indipendenza (di una compagnia, della stampa e delle donne), c’è questo momento di amore per i grandi macchinari dietro il quale si intravede l’amore per i materiali del cinema di ieri.
Arriva alla fine, l’atto della stampa come l’eiaculazione in un porno, il momento in cui tutta la tensione accumulata viene rilasciata tramite un atto fisico ripreso da vicinissimo. Per godere. E solo un intelletto filmico del livello di Spielberg poteva avere l’idea di mostrare tutto il palazzo che trema per l’attività delle rotative.

La tensione in questione è quella di una trama nota, lo scandalo Pentagon Papers, in cui segreti di stato che screditarono più di un’amministrazione, mostrando come il governo avesse mentito ai cittadini (e non solo), fuoriuscirono grazie ad una talpa e furono pubblicati dai giornali. Il New York Times fu fermato dal tribunale, il Washington Post (attraverso il suo direttore e la sua editrice) dovette scegliere se astenersi o subire la stessa sorte senza avere le medesime spalle. Questa dunque non è una storia di giornalismo investigativo (l’indagine è poca cosa), non è la storia di un giornale che lotta contro l’esterno per arrivare alla verità ma per la maggior parte è quella di un giornale che lotta al suo interno per decidere cosa fare, se pubblicare e rischiare oppure no.

Tutto questo da solo basta già per fare un gran bel film, ottimo per Spielberg per Tom Hanks e per Meryl Streep, molto classico e ben inserito nella tradizione del cinema americano: il dialogo e la recitazione, in una messa in scena che nasconde se stessa, finalizzati alla trasfigurazione dei personaggi in simboli di virtù in contrasto.

Questo è un film sul passato che fa rimbalzare il presente, uno che usa una storia di giornalismo per raccontare la storia di una donnaThe Post però è anche qualcos’altro. Con una punta di opportunismo (visti i tempi) ma soprattutto una gran capacità di prendere una storia che è nota e trovarcene un'altra al suo interno, questo è un film sul passato che fa rimbalzare il presente, uno che usa una storia di giornalismo per raccontare la storia di una donna, la padrona del giornale, che lotta in un mondo di uomini per qualcosa di normale: la propria opinione su ciò che le appartiene. Chiunque altro probabilmente non solo ne avrebbe fatto un aspetto marginale, un condimento gustoso, ma non avrebbe resistito alla tentazione di dare a Meryl Streep (che oltre ad essere Meryl Streep è anche una paladina dei diritti delle donne ad Hollywood) un dialogo importante, una frase fulminante, una maniera di “dire” qualcosa a riguardo. Il motivo per il quale Spielberg, ancora oggi, è Spielberg è come invece affronti il problema dal punto di vista delle immagini, enfatizzando il contributo che può dare il cinema alla comprensione del mondo.

Nessuno per tutto il film dice una parola sul fatto che Kay Graham sia palesemente tenuta ai margini delle riunioni, scarsamente considerata dai sottoposti, sfiduciata (quello sì anche a parole) e sostanzialmente ritenuta una cattiva manager perché donna, è tutto lasciato alle immagini. Spielberg enfatizza il suo essere l’unica donna al tavolo, il suo stare in seconda linea continuamente, il fatto che quando si reca alla borsa per il suo discorso tutte le donne rimangano fuori e via dicendo. Mette in scena il fatto che l’emarginazione della donna nella società non è qualcosa che avviene a parole ma è più sottile, è una questione di sguardi, di toni della voce, di posizione delle persone nella stanza, di linguaggio del corpo e quindi di immagini. Solo così riesce ad arrivare al mostruoso risultato per il quale, in un film di giornalismo, che racconta la lotta per pubblicare delle notizie, la spaccatura tra stampa e potere e il coraggio dell’essere fedeli al proprio dovere (con un occhio al business), il momento più commovente è una camminata dell’editrice tra una folla di sole donne, in silenzio. Un’immagine struggente di spielberghiano ottimismo e rinvigorente fiducia nella razza umana, di forza e di tranquillità così palesi e sommesse che commuove.

Ci vuole un film intero che parli d’altro, fatto di scene accuratamente composte e interpretate con grandissima misura, per arrivarci, per arrivare a quella scena e alla comprensione di un punto di vista che nessuno dei molti altri film sull’argomento è riuscito a mostrare: che la posizione della donna nella società non si cambia a parole ma con gli atteggiamenti.

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