The Painted Bird, la recensione | Venezia 76
Brutale, violento e terribilmente sincero The Painted Bird è un canto triste in ode alla terribile violenza della natura e dell'uomo
Con un bianco e nero utile a rendere tollerabile l’intollerabile, Vaclav Marhoul gira un film in cui terra, animali, sangue e uomini non sono troppo diversi, uno in cui il rapporto profondissimo con la natura sembra quello dei film di Aleksei German, fatto di un’invadenza spropositata nell’inquadratura e di una contaminazione ineludibile con i personaggi. La campagna è un posto di brutalità pura in cui anche gli animali inquadrati per poco hanno malformazioni, tagli o mutilazioni, in cui nessun volto è presentabile ma tutti comunicano una vita di dolore. Per estensione non c’è niente nella messa che non parli di un’esistenza all’insegna del dolore fisico. Del resto il film inizia con un furetto bruciato vivo.
Ma The Painted Bird, presentato in Concorso al Festival di Venezia, come tutti i film che parlano di brutalità è anche un film di sensi in cui ci sono pochissime parole e molte sensazioni, in cui cui gli uomini comunicano come animali eppure non per questo non sono uomini, non per questo non ne vediamo l’umanità. La forza di questo film è di parlare una lingua sola, quella più dura, ma con essa dire tanto anche dell’amore, dell’attrazione, della pietà, dell’affetto e della solitudine.