The Order, la recensione: Jude Law prende il comando e salva il film
Non ci sarebbe stata speranza per The Order se fosse stata solo una storia di indagine sui suprematisti bianchi con collegamenti all'attualità
Nelle storie di indagini, il profilo del detective è quasi più importante di quello della preda o dei criminali su cui si indaga. Chi è? Come opera? Quale codice segue? Cosa ha nel suo passato e come questo si collega al caso? Per questo stupisce come per moltissimo tempo The Order non indaghi il suo detective, caratterizzato benissimo da Jude Law, che un passato ingombrante lo ha palesemente: è stato mandato in una zona remota per “darsi una calmata”, ha eccessi di rabbia e una dedizione esagerata, è insofferente all’autorità e brutale con le reclute. Eppure, quando sapremo cosa lo ha spinto lì, non importerà più, non sarà più determinante, perché il film ha lasciato il grosso dell’illustrazione di questo poliziotto ruvido e baffone a Jude Law e lui, lavorando solo di linguaggio del corpo, l’ha resa meglio di qualsiasi backstory.
Ma, per l’appunto, se The Order funziona e conquista (e lo fa bene!) è per il suo congegno, per la sua ambientazione montana e umida, in cui non si fa fatica a collocare sia il male, sia l’ignavia dello sceriffo, e quindi la foga della recluta che si attacca a Jude Law. Preda e cacciatori sono due specchi dello stesso atteggiamento: anche il poliziotto di Jude Law attira, affascina e comanda la recluta Tye Sheridan, come Nicholas Hoult fa con la sua milizia. Anche lui manipola, anche lui impone la sua legge e la sua dedizione al risultato al ragazzo. E forse questa è la parte che più ci fa conoscere il personaggio, la sua strana affinità con i suprematisti che odia.