The Old Oak, la recensione

La nostra recensione di The Old Oak, film diretto da Ken Loach presentato in concorso a Cannes 76. Con Dave Turner, Ebla Mari

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La recensione di The Old Oak, film di Ken Loach presentato in concorso a Cannes 76

Ancora una volta, il cinema di Ken Loach (o meglio: Loach/Paul Laverty, il suo sceneggiatore) si dimostra granitico nella sua idea di cinema: questo non glielo nega nessuno. Anche in The Old Oak, infatti, mostrare il fallimento del Welfare state (qui mescolato con la questione immigrazione) è il punto di rottura che serve a Loach per evidenziare le contraddizioni della società inglese e - di pari passo - mettere in luce la “buona umanità” di personaggi che solo dalle situazioni più disperate sembra poter nascere e che fiorisce nell'idea di condivisione comunitaria.

In questo suo cinema della coesione sociale, The Old Oak per forma e intenti è coerente, ma la forza ideologica e politica di Loach si lascia andare ad una retorica assertiva, che si limita a mostrare “quanto le cose vadano male” senza riuscire a muovere in chi guarda alcuna riflessione politica e/o soddisfazione narrativa.

La storia di The Old Oak è quella di TJ (Dave Turner), proprietario del pub The Old Oak, ultimo avamposto di socialità di una ex cittadina mineraria caduta in declino. Le miniere sono chiuse da trent’anni, la gente non sa come mettere un pasto in tavola, la cittadina si è spopolata, svenduta ad agenzie estere a cifre simboliche. Una situazione decadente che non può che esplodere nel momento in cui dei profughi siriani vengono trasferiti in quelle case, diventano vicini di inglesi razzisti e persone diffidenti che reclamano di essere i primi bisognosi d’aiuto.

Questo è il contesto, ma in realtà il film mette abbastanza da parte il realismo sociale e la storia (che pure si intuisce qua e là: è quella di Durham, delle proteste dei minatori degli anni Ottanta) e si vota inutilmente a raccontare l’amicizia che nasce tra TJ e Yara (Ebla Mari), ad elogiare il modo in cui Yara evochi le tragedie della Siria e voglia condividere con i paesani sia il dolore (cosa ha visto nei campi di prigionia) che la gioia (organizzando pasti comunitari, eventi di scambio). The Old Oak è la frontiera simbolica dell’appartenenza ed è rivendicata da un gruppo di paesani razzisti: questi sono la controparte del film ma ciò che faranno lo capiamo da subito, nessuna sorpresa.

Il conflitto potenziale di The Old Oak è quindi molto più interessante di quello che effettivamente viene messo in scena da Loach. I cattivi paesani che letteralmente dicono “non sono razzista ma…” sono evidentemente personaggi che odiamo dall’inizio: e qui il problema narrativo di The Old Oak diventa politico, ideologico. Loach si accontenta dello stereotipo, non mette mai in discussione ciò che disprezza o che ammira, si limita a sottolineare all’infinito quanto i razzisti siano cattivi e quanto “i tolleranti” siano buoni. Un modo evidentemente stanco, retorico e autoriferito di fare cinema, che parla soltanto a chi è già d’accordo prima dell’inizio del film. L’effetto magone cerca di coprire tutto, ma il finale mette a nudo quanto il discorso del film sia sospeso e irrisolto.

Siete d’accordo con la nostra recensione di The Old Oak? Scrivetelo nei commenti!

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