Per chi conosce parte della sua carriera, il volto di
Brit Marling vive soprattutto negli spazi di una
fantascienza d'autore spesso fredda e dalle venature drammatiche, che non si alimenta tanto del fascino dell'invenzione visiva quanto del carico emotivo che questa rappresenta per i protagonisti. Sembra un filo rosso che lega alcune delle sue esperienze professionali più interessanti, da quelle sviluppate dal regista
Mike Cahill con il bellissimo
Another Earth e l'altrettanto interessante
I Origins, a quelle dell'iraniano
Zal Batmanglij con
Sound of my voice. E proprio con quest'ultimo regista l'attrice ha collaborato attivamente nello sviluppo della serie
The OA, approdata su
Netflix, come di consueto con tutti gli episodi rilasciati in contemporanea.
La premessa della vicenda è quantomai interessante. La raccontiamo brevemente di seguito senza entrare nei particolari, ma dando un quadro generale: la storia è quella di Praire Johnson, scomparsa per molti anni che, all'improvviso e senza spiegazione, torna a casa. Ad aumentare l'incredulità di quanti la riaccolgono nelle loro vite il fatto che al momento della scomparsa la ragazza fosse cieca, mentre al suo ritorno ha riacquistato la vista. Dopo un iniziale momento di sbandamento, in famiglia si cerca faticosamente di ricostruire un equilibrio difficilmente recuperabile. Intanto, Praire avvicina, e viene avvicinata, da una serie di persone che sono rimaste folgorate dalla sua esperienza personale. Qui inizia un racconto per flashback che ci mostra cosa è accaduto.
Sempre più spesso notiamo come
le serie assomigliano sempre più a lunghissimi film spalmati su più ore e su più episodi. Il primo episodio di
The OA ne è un esempio lampante. Un lunghissimo e anche faticoso prologo, che non vuole essere particolarmente accattivante, ma che si prende tutto il proprio tempo avvicinandosi con lentezza ai personaggi. Solo in conclusione, dopo un'ora, la serie inizia palesemente il proprio racconto, con tanto di titoli di testa, come se tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento fosse una lunghissima
cold open. The OA non farà un solo passo indietro rispetto a questo approccio per tutti gli otto episodi, riprendendo dal precedente
Sound of My Voice alcuni punti base del soggetto, un certo gusto per la gestualità marcata, una generale ricerca dell'illuminazione, qualunque cosa questa significhi.
Non si tratta di un'esperienza da spettatori particolarmente gratificante, non vuole piacere a tutti i costi, non vuole né conquistarci né tenerci stretti. Tanto per rimanere in casa Netflix, se esiste come approccio qualcosa di diametralmente opposto a Stranger Things, è questo. Visivamente e narrativamente ci troviamo di fronte a un racconto freddo e distaccato al pari dei suoi protagonisti, spesso anche volti "non particolarmente televisivi" dalle motivazioni e dal vissuto poco interessanti. Che forse saranno importanti per la trama, o forse no. Difficile capire cosa lo sia realmente in questa serie molto respingente.
Esiste l'idea, che gravita soprattutto intorno alle motivazioni del personaggio interpretato da
Jason Isaacs, di una storia e di una mitologia più grandi, che potranno
oscillare tra fantascienza e sovrannaturale, ma che si rifiutano di elaborare uno schema coerente. Forse perché l'esperienza individuale e l'impatto emotivo sono più importanti? Magari
una lettura metaforica su come ogni esperienza, anche la più terribile, abbia un senso nel grande schema delle cose? In questo
The OA rivela la sua anima più indipendente e meno commerciale, che peraltro si sposa perfettamente con il percorso dell'attrice, produttrice e sceneggiatrice maturata all'ombra del
Sundance. Ne risulta un progetto respingente e difficile, che spesso, complice anche la lunga durata, si perde nella propria astrattezza, con un ritmo volutamente, ma troppo, basso.