The North Water, la recensione

La nostra recensione di The North Water, cupo affresco artico in cui natura e civiltà si scontrano senza reali vincitori

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Spoiler Alert
Sui versi bestiali di un amplesso nei bassifondi si apre The North Water, miniserie britannica che a molti ricorderà le raggelanti atmosfere della prima, ineguagliata stagione di The Terror. Proprio la bestialità insita nell’essere umano è tra i temi portanti di questo cupo dramma vittoriano, tratto dal romanzo Le acque del Nord di Ian McGuire; e quale miglior contesto per far emergere il germe animalesco dell’uomo, che quello claustrofobico di una baleniera isolata tra i ghiacci dell’Artico?

La vicenda narrata dalla serie, prodotta da quella See Saw che già ci aveva regalato titoli viscerali come Shame Hunger sul grande schermo, vede contrapposti due poli antitetici: l’istruito medico irlandese Patrick Sumner (Jack O’Connell), caduto in disgrazia poiché capro espiatorio di una disgraziatissima missione in India, e il brutale arpioniere Henry Drax (Colin Farrell), animato unicamente dai propri istinti ferini. La scelta dei nomi è tutt’altro che casuale, poiché rimanda da un lato alla ferocia del drago (drax, appunto, in latino) e dall’altro al ruolo di sciamano (summoner significa “evocatore” in inglese) in cui il dottore si troverà calato suo malgrado.

Entrambi gli uomini finiscono a bordo della baleniera Volunteer, coinvolti in un viaggio già fatalmente segnato prima ancora che la nave salpi dal porto di Hull. Dietro le quinte, l’armatore Baxter (Tom Courtenay) ha infatti già concordato col capitano Brownlee (Stephen Graham) l’affondamento della Volunteer per poter incassare una cospicua assicurazione.

Lo scontro tra l’ipocrisia della civiltà e la violenza della natura viene a lungo rimandato nel corso dei cinque episodi che compongono la stagione, ma il dualismo forma la base su cui viene costruito il microcosmo di personaggi che orbitano attorno a Sumner e Drax. Ed ecco che l’allontanarsi dalle coste inglesi corre in parallelo al distacco progressivo dalle leggi del vivere civile, precipitando i protagonisti in un nero turbine di sangue e atrocità.

La regia di Andrew Haigh alterna con sapienza i claustrofobici interni della Volunteer, cornice di volti segnati e sporchi illuminati dalla fioca fiamma di lampade a olio, e gli sterminati paesaggi artici in cui la presenza umana risulta quasi infinitesimale, a evidenziare sapientemente l’impotenza dell’uomo di fronte alla vastità di un paesaggio ostile. Con l’occhio attento di un pittore d’altri tempi, Haigh dipinge sequenze di cruda bellezza, perturbanti sia a livello estetico che emotivo (basti pensare all’esplosione di sangue sul ghiaccio per l’uccisione della balena).

the north water

Sulle ottime prove attoriali dei comprimari si stagliano le interpretazioni di O’Connell e Farrell; la gravosa cappa di senso di colpa del primo, vanamente soffocata dalla carezza effimera del laudano, evolve man mano in un rabbioso rancore, che deflagra nelle grida disperate del giovane medico immerso nella tempesta di neve, faccia a faccia con l’unico nemico che gli sia rimasto. Una climax lenta ma inesorabile, che l’attore britannico ritrae con raffinata essenzialità.

Assai più barocca è la performance di Farrell, irriconoscibile nel lerciume (fisico, morale, verbale) in cui modella il suo Drax. Non c’è lo sguardo del pazzo a metterci in guardia, e la belva sa ben mascherare all’occorrenza i propri artigli; l’arduo compito di ritrarre un criminale senza coscienza ma non certo privo d’intelletto riesce alla perfezione alla star irlandese, fabbro di una maschera tragica che affascina e repelle con la medesima efficacia.

Lungi dall’essere un romanzo di formazione, The North Water potrebbe essere considerato un romanzo di deformazione, in cui i pochi spiriti realmente innocenti vengono irrimediabilmente schiacciati dalla morsa della psicopatia di Drax e, più in generale, di una natura mai stata così matrigna. Anche il civile, incolpevole Sumner finisce per adattarsi a un universo naturale che non mostra pietà per nessuno e che lascia sopravvivere il più abominevole dei criminali a scapito di animi ben più nobili.

Forte di questa lezione, Sumner rientrerà nella società degli uomini in tempo per assaporare una vendetta cruenta un tempo impensabile per lui. “Vivere significa soffrire”, ci suggerisce il titolo dell’episodio finale della serie, e questa sofferenza nasce dalla necessità di adattarsi a regole crudeli che fanno da ponte tra istinto e razionalità, follia e lucidità. In questo senso, l’affondamento intenzionale della Volunteer riecheggia l’assassinio del giovane mozzo Hannah (Stephen McMillan); tanto la nave quanto il ragazzino sono vittime inermi della spietata bramosia dell’uomo.

Non c’è vincitore, dunque, nello scontro tra natura e civiltà; ciò che si para davanti ai nostri occhi è solo il candido ghiaccio artico tramutato in palcoscenico di carneficina, un eccidio che porta sì il marchio della bestia Drax, ma anche del rispettabile imprenditore Baxter. Sebbene entrambi trovino, per mano di Sumner, definitiva punizione per i loro crimini orrendi, allo spettatore non può bastare un così tenue balsamo per lenire la consapevolezza che certe dinamiche continueranno a ripetersi.

Sull’enigmatica figura di un orso in gabbia, osservato da un Sumner rinato alla vita e apparentemente reinserito nel mondo civilizzato (ma, si badi, non più in quell’Inghilterra che l’aveva sempre additato come straniero), si chiude il cerchio di The North Water. In esso è racchiusa la lezione appresa dal tormentato medico, l’amaro monito a non dimenticare mai che, prigioniera dentro il guscio evoluto dell’uomo sociale, la cieca furia delle pulsioni animali è sempre pronta a risvegliarsi.

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