The Night House - La casa oscura, la recensione

Con spunti presi anche da Hitchcock che non vengono mai davvero esplorati The Night House vuole essere arty più di quanto non lo sia davvero

Critico e giornalista cinematografico


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The Night House - La casa oscura, la recensione

È quasi tangibile la forza del desiderio che The Night House ha di essere arty. È un horror dall’impianto estremamente convenzionale che David Bruckner è però determinato a inserire nel flusso dei nuovi horror d’autore americani. Non solo non ne ha le capacità immaginifiche (a questo punto davvero meglio Gretel e Hansel che se non altro ha il coraggio di creare immagini particolari), ma nemmeno possiede una reale capacità di maneggiare più strati di significati di crescente complessità. La storia di The Night House è quella più convenzionale e la scopriamo dopo poco quando la protagonista annuncia che il marito è da poco morto, sparandosi. La casa in cui vive, che pare infestata, è quella costruita da lui. Da qui in poi la sceneggiatura si scrive da sola (e c’è anche il più convenzionale degli specchi d’acqua prontissimo per i paralleli tra liquido e al di là).

Quello che Bruckner cerca di fare è di dare ai consueti luoghi comuni una patina più sofisticata. Anche i jump scare qui guardano lo spettatore dall’alto verso il basso, come fossero sofisticate operazioni che rivelano un senso superiore del film. Il senso poi ci sarebbe anche ma fa quasi tenerezza scoprirlo: la paura e l’elaborazione di un lutto sono quasi la stessa cosa. The Babadook aveva la grazia di arrivarci a sorpresa e di inventare una chiusura quasi rivoluzionaria per come ribalta il consueto atteggiamento.

Invece in The Night House per arrivare a quello che in un film serio sarebbe il punto di partenza passiamo attraverso tante visioni che non erano tali e altre che invece lo sono. Soprattutto passiamo sopra ben 2 temi hitchcockiani mai davvero esplorati: l’improvvisa perplessità riguardo chi sia stato l’uomo che la protagonista ha avuto accanto per anni, e il doppio, le due donne che si somigliano e che sono espressione di ossessioni maschili. Raramente tematiche così grosse sono state dismesse con tale sbrigatività.

Su tutto dovrebbe regnare Rebecca Hall, attrice che con cura ha creato per sé l’immagine della donna sofferente e che quel repertorio di disperazione effettivamente lo padroneggia benissimo. Ma anche lei, si spera, deve aver discusso non poco con il suo agente e il regista per tutta l’ultima parte della sceneggiatura in cui il film sembra fare a gara con i vari adattamenti di L’uomo invisibile, senza la grazia di saper lavorare le presenze che non possiamo vedere, finendo per sembrarne una parodia scollacciata.
E dire che tra i paralleli tra lei e Stacy Martin (in teoria suo “modello più giovane” che si sospetta avesse una storia con il marito) e tra gli spunti di possessioni domestiche e umane forse davvero qualcosa poteva essere tirato fuori. Ma davvero serviva tutto un altro atteggiamento.

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