The Newsroom (seconda stagione): la recensione

La seconda stagione dello show di Sorkin non è perfetta, ma si migliora e rappresenta un passo in avanti rispetto allo scorso anno

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Il cambio in corsa della opening di The Newsroom sembra essere il manifesto d'intenti di una serie che, al suo secondo, forse ultimo, anno, decide di riflettere su se stessa, di limare i propri difetti, di cercare, se non proprio di perfezionarsi, almeno di migliorarsi. E quando, a causa del poco spazio a disposizione, non sia possibile analizzare con precisione le varie storyline raccontate, fare un elenco attento e preciso di cosa funzioni in uno show e di cosa invece sia da migliorare, ma si debba necessariamente concentrare le riflessioni su un'intera stagione, e su una serie, in un unico appunto, forse la cosa migliore da fare è affidarsi ad una sola immagine. Al suo secondo anno la serie di Aaron Sorkin, dopo la generale delusione dello scorso anno, dovuta soprattutto alle enormi attese per il connubio tra la HBO e lo sceneggiatore premio Oscar, riflette su se stessa e prova a lanciarsi nella realizzazione di qualcosa di migliore. Il risultato non è eccellente, ma notevole nel risollevare il responso sul prodotto.

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Anacronistica, banale, soporifera: la sigla della prima stagione di The Newsroom era una delle peggiori della storia della HBO (che negli anni ci ha abituato a ben altri livelli). E in qualche modo rifletteva il carattere dello show, che se da un lato veniva condotto dal ritmo sostenuto dei tipici dialoghi di matrice sorkiniana (battute veloci, taglienti, coinvolgenti), al tempo stesso mostrava perennemente il fianco a critiche sulla sua vera ragion d'essere. The Newsroom è, ancora oggi, un oggetto strano da decifrare: come i suoi protagonisti presuntuosi e perfetti (o che almeno si ritengono tali), lo show vola alto nei suoi scambi di battute che assomigliano a dei feroci colpi di racchette scagliati da giocatori di tennis professionisti. Ci perdiamo in quelle evoluzioni, le ammiriamo, ma a volte ci ritroviamo e ci chiediamo: che partita stiamo guardando? Quella di una serie sul mondo del giornalismo? Una riflessione sulla comunicazione? Un drama sulle vicende personali dei membri di una redazione? Tutto questo ma solo in parte, e comunque mai compiutamente. Simile, ma non uguale, a quel gioiellino della BBC che si chiamava The Hour.

La nuova sigla non è perfetta, ma almeno dà l'idea di una serie prodotta nel terzo millennio, il che non è poco. E anche la scrittura e la progettazione dello show ha dato l'idea di aver lavorato maggiormente sulla propria architettura, sulla volontà di confezionare qualcosa che valga e funzioni nel suo insieme e, perché no, nel lungo termine, piuttosto che realizzare tonnellate di dialoghi fin troppo immacolati e puri per farci intravedere i personaggi che li espongono. Si sporca, finalmente, The Newsroom. Lo fa con una struttura che salta la diretta consequenzialità gettandoci nel mezzo delle reazioni ad eventi che non conosciamo, presentandoci una serie di personaggi, su tutti quello di Maggie, come diversi, turbati da eventi ben più interessanti dei triangoli amorosi della prima stagione. E lo fa assottigliando il minutaggio affidato alla retorica (nella prima stagione il finale di I'll try to fix you grida ancora vendetta) e aumentando quello dedicato alla narrazione verticale.

Lo stesso Will McAvoy, il presentatore onniscente che esordiva con un monologo artificioso sul fatto che gli Stati Uniti non fossero più il più grande Paese del mondo (peggio della retorica aperta c'è solo la retorica nascosta), che si proclamava Repubblicano e agiva come Democratico, finalmente si scopre in questa seconda stagione. È più umile, pur mantenendo la sua aura di sbruffone, mostra le proprie debolezze, lo vediamo passare notti insonni, lo osserviamo scendere dal suo piedistallo (fosse anche per cantare Friday), lo seguiamo in una proposta di matrimonio forse affrettata, forse troppo improvvisa, ma umana. E lo vediamo anche, in una delle ultime puntate, esplicare finalmente la sua posizione di Repubblicano in un modo assolutamente condivisibile, e che in prospettiva getta anche una certa luce sugli episodi precedenti.

In un doppio finale che ha il sapore di una conclusione di serie piuttosto che di stagione, lo show di Sorkin, che ha sempre puntato sul proprio valore presente, alto o basso che fosse, piuttosto che rimandare idealmente lo spettatore ad attesi sviluppi futuri, chiude coerentemente quasi tutte le proprie storyline, quasi tutte le proprie tensioni. Lo fa consegnando, ancora non sappiamo se all'eventuale terza stagione (Jeff Daniels è sicuro che si farà) oppure alla storia della televisione, un prodotto certamente imperfetto, ma anche valido, ben scritto, ben interpretato, capace di intrattenere e di rialzarsi in corsa.

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