The Nest, la recensione

Un dramma familiare così denso di metafore da saturare subito l'interesse. Per fortuna in The Nest c'è in questione anche il fascino di Jude Law

Critico e giornalista cinematografico


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The Nest, la recensione

C’è spazio per tutti dentro The Nest, diverse letture per diversi spettatori vengono aperte da una storia sufficientemente vaga nei suoi eventi ma precisa nella sua atmosfera. Le suggestioni sono molte e il film mostra di non preferirne una in particolare. Di certo è un dramma umano che usa tante tecniche dell’horror (soprattutto gli ambienti e alcune inquadrature) per andare da un’altra parte, per raccontare un periodo e una famiglia. Come se stessimo assistendo a qualcosa che accade prima della trama horror, un film in cui c’è un maniero posseduto che però finisce prima che si manifestino le presenze.

La storia è in realtà quella della famiglia O’Hara che dall’America si trasferisce a Londra nel 1980. Lui, il padre di una figlia e un figlio, nonché marito di un’americana è di lì, è inglese, e tornando nel suo paese riprende anche le fila del lavoro nella finanza che aveva portato avanti in America. È tornato con una fama di business più forte di prima. Sono benestanti ma si capisce ben presto che lì in Inghilterra iniziano a vivere al di là delle loro possibilità, sperando in un grande affare. Intorno a questa storia si sgretola un legame che in America sembrava andare bene, la famiglia tutta è sempre più distante, presa da qualcosa di effimero e al tempo stesso folle.

C’è una storia più o meno biografica dietro The Nest, Sean Durkin ha davvero traslocato con la famiglia da piccolo dall’America al Regno Unito. Dallo shock culturale che ricorda viene questo film, colmo di differenze sociali, mancata integrazione, distanza e un desiderio spasmodico di apparire ricchi, molto ricchi. Non a caso è proprio con l’esposizione di una serie di simboli del benessere che inizia il film, anche se sono poca cosa a confronto del maniero in cui la famiglia vivrà a Londra. Per l’appunto un maniero da horror. I soldi, molti soldi, e il desiderio di farne di più con gli affari, le fusioni, i clienti da conquistare e i capi da convincere è il demone che possiede il protagonista.

Accostabile a 1981: Indagine a New York per come usa la sua ambientazione anni ‘80 facendo finta di non curarsene, ad un anno dall’elezione della Thatcher e due da quella di Reagan ma immerso nella finanza e nell’aspirazione alla ricchezza, in realtà questo film in cerca di denaro tutto fotografato con una cupa precisione in un bellissimo 35mm da Mátyás Erdely (lo stesso di Il figlio di Saul e Tramonto), sembra interessato soprattutto al fascino. È la capacità di ammaliare la caratteristica principale del venditore che padroneggia o almeno pensa di padroneggiare Rory O’Hara, Jude Law (il quale da tempo ha attaccato su di sé questo personaggio della persona che attira di lavoro, che ha tra le sue abilità la capacità di affascinare). Lui che come il capitalismo accelerato nel 1980 ha attraversato l'Oceano dall’America di Reagan nell’Inghilterra della Thatcher.

Ma, ovviamente, è un’illusione. È fumo e quando il suo charme da 4 soldi da venditore comincia a tradirlo tutto inizia ad andare in malora. Per mantenerlo deve fingere e vivere al di sopra delle sue possibilità. È questa la parte migliore e più concreta del film, quella che riguarda come Jude Law aggiunga un'altra figura di forzato del fascino al suo catalogo, e non quella che invece coinvolge la moglie, interpretata dalla pur brava Carrie Coon, più sfacciata e densa di metafore esibite (come il cavallo, simbolo di quel che lo spettatore vuole ma comunque simbolo perché di fatto quel che gli accade è più inutile di quanto il film non voglia convincerci). Come del resto è più interessante questa della lettura matrimoniale o di quella generazionale (Rory va a trovare una madre povera che non sente da tempo e che mostra solo disprezzo per lui, come se la sua personalità fosse figlia di quel che hanno fatto i suoi genitori). O ancora di quella della "famiglia infestata dal capitalismo".

Alla fine anche quella lettura, come tutto il resto, rimane un accenno.

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