The Miracle Club, la recensione

Fra commedia british e pellegrinaggi religiosi The Miracle Club non sorprende, ma ha dalla sua tre attrici straordinarie

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La recensione di The Miracle Club, il nuovo film diretto da Thaddeus O'Sullivan in sala dal 4 gennaio

A prima vista non c’è molto che separi The Miracle Clubdalla gran parte dei prodotti medi sfornati ogni anno dal cinema britannico. Storia di due signore dublinesi (Maggie Smithe Kathy Bates) che negli anni ‘60 partono per Lourdes insieme alla figlia della migliore amica appena scomparsa (Laura Linney), il nuovo film di Thaddeus O’ Sullivan (Un perfetto criminale) mescola in modo esperto ma abbastanza risaputo i registri dell’ironia e del bozzetto popolare che ci si aspetta da questo tipo di produzione anglo-irlandese. Ne esce una dramedy al femminile tutta affidata al coro delle interpreti, dove il pellegrinaggio si fa occasione “confessionale” di scavo psicologico e ricomposizione di rapporti in frantumi.

Se The Miracle Clubpuò valere la visione è soprattutto per il cast, capace di infondere vita e umanità a uno script non più che discreto. È grazie loro, in particolare il trio delle protagoniste, che la storia si accende di un po’ di sano british humour, riuscendo a divertire e commuovere con sviluppi di trama che in mano a interpreti inferiori sarebbero apparsi scontati. Nonostante reciti accanto a due mostri sacri (notevole il lavoro diBates sull’accento) è Linneya spuntarla col ritratto più intenso e sfaccettato, confermando per l’ennesima volta un talento spesso sottovalutato. C’è spazio anche per un’icona irlandese come Stephen Rea, malinconica maschera del cinema di Neil Jordan, che si diverte alla guida dell’“altro” coro del film – quello dei mariti lasciati a casa dalle pellegrine, costretti per la prima volta a farsi carico dei figli scuotendosi di dosso un po’ di retaggio patriarcale.

Ed è proprio qui che sta l’altro elemento di interesse del film; vale a dire come un racconto di profonda matrice cattolica, che in qualche modo si può anche leggere come spot di Lourdes e del “business dei miracoli”, si apra con astuzia moderna a letture laico-progressiste (il miracolo come avanzamento sociale) e perfino femministe. Il percorso verso il Santuario diviene in quest’ottica emancipatorio, strumento desacralizzato di una ricerca di solidarietà femminile che, per quanto non certo rivoluzionaria, si pone comunque ad anni luce dai modelli auto-afflittivi e misogini della tradizione. Di più era difficile pretendere da un’operazione devozionale che ha per destinatario d’elezione un pubblico over 70, ma che grazie a questi spunti e al carisma delle interpreti riesce comunque a non risultare troppo indigesta.

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